09 Gen ADOZIONE:L’INCONTRO TRA DUE FRAGILITÁ
Di Chiara Martorelli
“Nessun problema! Se non potrò avere figli li adotto!” Ho sentito pronunciare con fare sicuro questa affermazione ad una coppia che vedeva nell’adozione di un bambino un compito poco gravoso, un antidoto a portata di mano di un male che speravano non li colpisse: l’infertilità.
“L’ottica adultocentrica condiziona spesso coppie, istituzioni, legislatori: fa dimenticare che le adozioni dovrebbero servire a dare una famiglia ad un bambino abbandonato che non ce l’ha e non già a dare un bambino a genitori che non riescono ad averlo.” (cfr. “Adottare un bambino con intelligenza emotiva”)
Questo aspetto fondamentale sfugge molto spesso a tutte quelle persone che si affacciano nel vasto panorama dell’adozione senza la consapevolezza delle difficoltà che questo lungo percorso comporta. L’adozione non è un semplice istituto giuridico ma un incontro tra due fragilità, ricco di emozioni, aspettative, fantasie ma anche storie fatte di dolore, vissuti abbandonici e ferite che necessariamente devono essere riconosciute, accettate, elaborate. Per es. i genitori che intendono adottare possono essere portatori di una ferita narcisistica: l’impossibilità di generare un figlio proprio. Quello della mancata gestazione rappresenta un vero e proprio lutto in quanto, il bambino immaginato, pur essendo inesistente sul piano fisico, ritaglia già il proprio spazio nella mente della coppia. Questo dolore per quel bambino fantasticato, non potrà certo essere facilmente placato sostituendolo con un bambino reale con una storia in parte già scritta e proveniente da un’altra famiglia che per svariati motivi non è stata in grado di occuparsi di lui. L’adottato d’altro canto, porterà con sé un altro tipo di ferita, quella dell’abbandono, perché prima di essere voluto da coloro che intendono adottarlo, è stato “non voluto” dai genitori biologici che hanno fallito nella propria funzione genitoriale. Si tratta di bambini che hanno subito traumi di entità differenti e che, come ogni trauma, hanno lasciato un vuoto, uno squarcio nella loro soggettività, nella mente e nel corpo. I più piccoli porteranno con loro delle ferite invisibili delle quali non sono consapevoli, ma comunque scritte nella loro memoria emozionale e in grado di influenzare il loro comportamento. I più grandi probabilmente ricorderanno bene il volto di chi li ha abbandonati, maltrattati o chi ha abusato di loro.
I genitori che adottano, talvolta, ritengono di dover essere risarciti. La natura li ha privati della possibilità di generare un figlio proprio, e questo grande debito può essere ripagato solo da un bambino che, come loro desiderano e come gli “spetta”, che li ami in maniera incondizionata, perché loro, alla fine dei conti, lo hanno voluto e “salvato” e quindi è anch’esso debitore. Ma come può un piccolo che porta con sé un trauma affettivo o ha subito dei maltrattamenti o degli abusi, dare amore incondizionatamente? Andrebbe contro i fisiologici meccanismi difensivi, talvolta caratterizzati da comportamenti compiacenti e altre volte dal distacco emotivo, messi in atto per fronteggiare situazioni troppo dolorose.
Il percorso dell’adozione richiede il passaggio per le strade più dissestate, quelle fatte di emozioni spiacevoli: per i futuri genitori di sconforto, frustrazione, rabbia e invidia nei confronti di chi ha avuto la possibilità di generare; e per il bambino fatte di tristezza, ansia e paura di un altro abbandono. Nel momento dell’incontro è obbligo per gli adottanti aver già attraversato quelle strade, e aver imparato a non reprimere e minimizzare le emozioni spiacevoli, ma al contrario accettare la loro presenza come parte integrante della loro storia e utilizzarle, padroneggiarle, sviluppando delle competenze emotive. A tal proposito Claudio Foti (2007) afferma “non credo che esistano tante esperienze umane che richiedono, come l’adozione, un addestramento emotivo, un allenamento emotivo, cioè uno sviluppo dell’intelligenza emotiva, una crescita della capacità di trattare le emozioni”. In primis è necessario comprendere che il bambino non è lì per riempire il vuoto dei genitori, e il solo amore nei suoi confronti non basterà, sarà necessario un impegno continuo volto a far sì che il bambino riesca ad elaborare la propria storia passata ed integrarla con il presente per creare un futuro come famiglia, insieme. Per far ciò è necessario che il genitore sia accessibile, non solo fisicamente ma anche emotivamente, che permetta al bambino di parlare della propria storia, anche delle parti più dolorose che ancora non sono state significate e consentirgli così di comprenderle e mentalizzarle.
Solo in questo modo sarà possibile per il piccolo costruire una propria identità, comprendere che se i genitori biologici non hanno potuto occuparsi di lui e lo hanno abbandonato, non è perché lui è stato “cattivo”, ma perché sono loro che per svariati motivi non sono riusciti a far fronte alla funzione genitoriale. “Mettere i genitori adottivi nella condizione di dare al proprio figlio una chiave di interpretazione della propria storia significa aiutarlo a capire come mai alcuni adulti (tra cui i suoi genitori biologici) hanno fallito nell’assumere il proprio ruolo genitoriale” (Vadilonga, 2011).
Quello dell’adozione è un processo complesso, fatto di una continua ricerca e attribuzione di significati, di storie da integrare ed emozioni da esplorare e padroneggiare, fatto di un amore inteso come capacità di accettare l’altro così com’è, un percorso che deve essere sostenuto e accompagnato così che dall’incontro di due fragilità si possa proseguire insieme ed assicurare una seconda possibilità a chi è stato sfortunato nella prima.
BIBLIOGRAFIA
- Vadilonga F., (2010) , Curare l’adozione. Modelli di sostegno e di presa in carico dei percorsi adottivi , Milano: Raffaello cortina.
- Foti C.(a cura di), (2007), Adottare un bambino con intelligenza emotiva , Moncalieri (To): Sie editore.