Anche a scuola si può respirare, anche a scuola si può meditare…

Anche a scuola si può respirare, anche a scuola si può meditare…

Due anni fa mi fu assegnata una classe di IV liceo che nella mia materia aveva visto nei primi tre anni un alternarsi di insegnanti, alcuni dei quali spesso assenti per malattia. La discontinuità didattica non aveva consentito alle ragazze di questa classe di acquisire una preparazione adeguata , per cui si respirava un’aria di forte tensione soprattutto in occasione delle verifiche, ma comunque sempre ogniqualvolta le mie richieste le costringevano  ad uno sforzo superiore alle loro effettive capacità. D’altro canto io non potevo sottrarmi all’esigenza di preparare la classe in soli due anni per un esame di maturità che avrebbe valutato le effettive competenze più che i progressi compiuti.

Il quarto anno dunque ha visto un grosso sforzo delle allieve per stare al passo con le mie richieste. Il risultato è stato davvero buono per quanto riguarda il miglioramento delle conoscenze, ma lo stress da prestazione rimaneva molto alto. Alcune ragazze presentavano forti disturbi psicosomatici: attacchi di panico, afonia, nausee ricorrenti, cefalee, depressione.

All’inizio del quinto anno decisi che,  poiché le ragazze avevano dimostrato un notevole impegno e desiderio di migliorare, io avrei dovuto farmi  carico delle loro difficoltà cercando di favorire un ambiente più serenamente costruttivo. Poiché in quel periodo all’interno del gruppo di Mente e Vita stavamo valutando l’opportunità di presentare nelle scuole un progetto che introducesse la meditazione di consapevolezza come pratica regolare, decisi di avviare un esperimento, e proposi alle ragazze di iniziare le nostre lezioni con qualche minuto di meditazione.

La loro reazione fu di stupore. La meditazione a scuola? Perché? Con quale obiettivo? Ero forse buddista?

Risposi citando il titolo di un libro “La meditazione non è ciò che pensi” e spiegai loro i principi della Mindfulness: l’importanza di essere presenti nel momento presente, di osservare senza giudizio e con benevolenza ciò che attraversa il nostro corpo e la nostra mente allorché ci fermiamo e ci concentriamo sul respiro. Naturalmente le mie parole non tacitarono il loro scetticismo, ma ebbero l’effetto di far sentire loro che avevo a cuore il loro benessere.

E così partimmo.

Dissi loro che naturalmente chi non desiderava meditare poteva non farlo, rimanendo comunque in silenzio. Mi sembrava che anche il ruolo di semplice spettatore potesse essere utile. Proposi per alcune lezioni dieci minuti di osservazione del respiro, a cui, inizialmente, nessuna di loro si sottrasse. Il riscontro fu positivo: molte di loro dicevano di essersi rilassate o di aver avuto “la sensazione di essere in un altro mondo”. Mi resi però immediatamente conto che per dieci minuti di meditazione non bastavano pochi minuti per la condivisione e la restituzione, poiché i vissuti emersi richiedevano un tempo di elaborazione che finiva per assorbire tutta l’ora di lezione. Ma io dovevo anche insegnare l’inglese!

Mi sentivo pertanto lacerata tra l’esigenza di svolgere il programma e quella di dare spazio a ciò che di prezioso le ragazze mi riportavano. Ma questo non è un dilemma nuovo per un insegnante che provi a  dare ascolto e dignità alla vita emotiva dei suoi allievi.

A poco a poco, man mano che l’anno scolastico procedeva e le verifiche diventavano più pressanti in tutte le discipline, capitava che qualcuna delle ragazze mi dicesse che non se la sentiva di meditare. “Ho un’interrogazione nell’ora successiva, non riesco a concentrarmi”, “Ho troppo mal di stomaco, se medito sto peggio”, “Sono preoccupata, preferisco non pensare” erano le loro motivazioni, che io cercavo di accogliere senza giudizio, né nei loro confronti né nei miei, ma con pazienza e fiducia. Nella restituzione facevo notare loro che la meditazione non aumenta il nostro dolore, semplicemente ci aiuta ad ascoltarlo, quando non lo riduce. E’ illusorio pensare che non accorgersi di star male significhi star bene. Vale la pena invece di evitare almeno  quella che i buddisti chiamano “la seconda freccia”, cioè il dolore causato dal rifiuto della sofferenza, “la prima freccia”, che, in quanto costitutiva dell’esistenza, non è evitabile. A volte però capita che ciò che emerge è davvero qualcosa di molto penoso, che può richiedere un’elaborazione approfondita e paziente, cosa che io non ho lo spazio e, non essendo psicologa, neanche le competenze per fare. Ritengo comunque che il riconoscimento di un disagio sia il primo passo per una cura di sé, lungo la strada dell’accettazione che, sola, può condurre alla guarigione.

A volte capitava che io entrassi in classe molto stanca, presa da altre urgenze, o demotivata, e mi accingessi ad iniziare la lezione senza la nostra meditazione. “Ma come, prof, oggi non meditiamo?” E mi sentivo tirata con una corda di burro. Più volte mi sono accorta che erano loro a tirare me, accettando che anche il conduttore può aver bisogno di essere sostenuto, di tanto in tanto. Questa è la forza del gruppo.

Ricordo in particolare il momento in cui si chiudevano gli occhi ed esplodeva il silenzio, mentre nel corridoio permaneva il baccano, o dalla classe accanto ci giungevano le voci di altri allievi o insegnanti. Nella nostra classe, silenzio assoluto, un livello di energia palpabile, 23 persone che contemporaneamente osservavano se stesse ed il loro respiro. Addirittura commovente …

Decisi un giorno di ritagliare lo spazio per una meditazione più lunga ed articolata: la meditazione della montagna. E’ una pratica che mira a favorire il contatto con la propria solidità, stabilità, imperturbabilità. Cambiano i climi e le stagioni ma la montagna è sempre là.  Il risultato fu sorprendente, le ragazze erano entusiaste, tanto che una di loro mi chiese se in futuro potevamo rifarla e se consentivo loro di registrarla. La ripetemmo infatti in una lezione successiva.

Ciò mi diede lo stimolo a ritagliare degli spazi più adeguati e decisi di chiedere un corso di “recupero motivazionale”pomeridiano in cui avrei fatto sperimentare la meditazione dell’uvetta e la meditazione camminata. Scelsi queste due pratiche per varie ragioni:

–        Entrambi sono facilmente adottabili nel quotidiano: ogni giorno mangiamo ed ogni giorno camminiamo

–        La meditazione sul cibo porta l’attenzione su come mangiamo, e le ragazze in questa fascia di età spesso soffrono di disturbi alimentari

–        La meditazione camminata offre un’ottima opportunità per calmarsi quando si è in ansia: i piedi sono la parte del corpo più lontana dalla testa, e ci ancorano al suolo, al qui ed ora, lontano dai pensieri.

Il risultato non fu però quello che mi ero aspettata  (eh già! la meditazione non è ciò che pensi ….) e feci un po’ di fatica a tollerare che l’entusiasmo delle ragazze fosse inferiore alle mie aspettative.

Ci fu un periodo in cui A. non venne a scuola per lungo tempo.  A. soffriva di attacchi di panico ed i suoi risultati scolastici lasciavano intravedere una bocciatura. Quando finalmente tornò a scuola, le chiesi come stava e lei mi rispose che aveva trascorso una decina di giorni incapace di alzarsi dal letto, in preda ad una profonda depressione. “L’unica consolazione, prof, era la registrazione della meditazione della montagna. Lo sa che a volte E. ed io ci troviamo a farla a casa mia?”

Meditammo con regolarità per tutto l’anno. Con quale risultato? Non saprei dire esattamente. Non so se queste ragazze mediteranno ancora, forse non ora,  in futuro chissà? Credo però che sia stato gettato un seme, che magari avrà bisogno di molti inverni per germogliare, o magari non germoglierà mai.

Non credo comunque che ripeterò l’esperimento: la pratica meditativa merita uno spazio tutto suo, di gran lunga superiore al quarto d’ora sottratto alla lezione di inglese. Mi piace pensare però che in un futuro non lontano possa essere inserita nell’ora alternativa all’insegnamento della religione cattolica.

Alla “pizzata” della fine di quell’anno scolastico chiediamo ad una ragazza della classe,  abilissima imitatrice, di fare una parodia di tutti gli insegnanti, me compresa. “Allora, se ve la sentite, potete chiudere gli occhi, e portare l’attenzione ai punti di contatto: le mani sulle ginocchia, i piedi sul pavimento, le natiche sulla sedia …” L’ilarità suscitata dal suo tono di voce, ma soprattutto dalle natiche sulla sedia si diffonde in tutta la pizzeria. Devo confessare che mi sento un po’ imbarazzata. Sento un pensiero  inespresso che aleggia nella sala, una frase in passato pronunciata da una mia collega: “Mah, la Carnisio non è più un’insegnante!” Mi conforto pensando  che,  se insegnare significa lasciare un segno, almeno in A. un segno è stato lasciato.