
06 Dic Cura di sé e resilienza: una nuova prospettiva di formazione per gli operatori – Abstract
di Claudio Foti
STATI GENERALI CISMAI 13 dicembre 2013
La cura di sé non è un lusso, non è un optional, non è una perdita di tempo rispetto all’obiettivo prioritario di un’azione efficace nell’aiuto e nella protezione. La cura di sé è un ingrediente indispensabile ed irrinunciabile della cura dell’altro perché la mente umana è relazionale e ciò che è irrisolto, bloccato, malato nel soggetto portatore della cura inevitabilmente interferisce con gli interventi di aiuto e di tutela.
La cura di sé viene prevalentemente identificata nella nostra società con la cura dell’estetica e con l’enfatizzazione dell’immagine e del potere. Viene prevalentemente associata al consumo delle merci, all’inseguimento delle emozioni capaci di stordire, al divertimento, inteso come evacuazione dei vissuti emotivi autentici. La cura di sé diventa così una pratica autoreferenziale che favorisce l’inseguimento di obiettivi materiali, la ricerca affannosa di mete eccitanti che porta inevitabilmente a dimenticare e disprezzare i soggetti più deboli.
La cura di sé diventa così:
a) una prospettiva individualistica e distorta coerente con la cultura del narcisismo (“posso vivere felice nell’indifferenza verso gli altri”) e con la cultura della perversione (“posso vivere felice imparando ad usare gli altri”);
b) una direzione di marcia unilaterale che finisce per negare e sacrificare la dimensione emotiva, affettiva e relazionale dell’essere umano, un essere che a ben vedere può trovare la propria realizzazione autentica soltanto quando riesce a valorizzare e non già a cancellare il legame profondo che lo lega agli altri.
La cura di sé, in senso profondo e non deformato, è un impegno tutt’altro che attraente, perché obbliga a prendersi cura delle proprie ferite e della propria finitudine. Produce dunque resistenze strutturali di origine psicologica, istituzionale e sociale, configurandosi come un percorso certamente gratificante e salutare, ma contemporaneamente molto impegnativo e gravoso.
Non a caso gli esseri umani tendono a dimenticarsene. Non a caso gli operatori tendono a trascurare la cura di sé presi dalle logiche onnipotenti ed efficientistiche del fare, dell’eliminare la sofferenza dal mondo.
Spesso curare gli altri può rappresentare una fonte di sollievo o una modalità di evitamento di fronte alla difficoltà e alla complessità dello sforzo di occuparsi della propria soggettività, di fronte alla necessità dolorosa, se si sceglie la strada della cura di sé, del riconoscimento dei propri limiti e dell’elaborazione possibile delle mancanze che appartengono alla propria storia e alla propria mente.
La conoscenza autentica di sé porta inevitabilmente a fare i conti con presenze interne sgradevoli ed ingombranti, per es. a scoprire rilevanti componenti di svalutazione, trascuratezza, malevolenza, giudizio ipercritico o sadico, in maggiore o minore misura, nel mondo interno di ciascun soggetto. La vera amicizia di sé si riconosce nel momento della caduta. La cura di sé presenta le qualità psicologiche di una madre accudente e di un padre responsabile e presente.
Occorre distinguere il costrutto della compassione da quello della pietà. Il sentimento della pietà nasce da una sensazione di superiorità e separazione nei confronti di chi prova dolore, mentre la compassione ha proprio la capacità di aumentare il senso di connessione e interconnessione. Oggi la compassione non è più un tabù per la ricerca scientifica (cfr. Compassion focused Therapy) e si declina contemporaneamente come compassione dell’altro e compassione di sé. La compassione verso il sé è un concetto più ampio ed integrativo rispetto al concetto di autostima, perché comprende il rispetto della propria fragilità e dei propri limiti ed errori e perché sollecita l’empatia verso il sé con responsabilità e senza autogiustificazione con una forte interconnessione con gli altri.
La compassione salutare non può essere imposta in modo volontaristico o doveristico, bensì deve sorgere dalla consapevolezza amorevole verso la nostra infanzia rimossa e deve sollecitare la comprensione e l’elaborazione delle nostre parti non compassionevoli. La compassione autentica va a beneficio non solo del destinatario, ma del soggetto che la vive ed risulta un fondamentale fattore di resilienza, di autoprotezione e di stabilizzazione dell’operatore che si prende cura degli altri.
Risulta inoltre indispensabile per la resilienza lo sviluppo della consapevolezza e dell’attenzione del momento presente con accettazione. Sono fondamentali le indicazioni che provengono dalla Mindfulness, dall’ACT (Terapia dell’Accettazione e dell’impegno), dalla Terapia senso-motoria.
Il concetto di accettazione suscita spesso profonde ed immediate reazione di incomprensione e rifiuto, evocando idee di passività, inerzia, fatalismo nei confronti di situazioni che invece potrebbero e dovrebbero essere contestate e cambiate. In realtà l’accettazione è la più straordinaria risorsa per il cambiamento.
“Quando la sofferenza bussa alla tua porta – scrive Chinua Achebe – e tu gli dici che non c’è posto per lei, lei ti risponde di non preoccuparti, perché ha portato uno sgabello.”
Quando la sofferenza di un bambino bussa alla tua porta e tu gli dici che non te l’aspettavi, che se ne vada o che venga immediatamente eliminata o risolta, lei ti risponde che non può assolutamente farlo, che s’è portata uno sgabello e che, se prima tu non l’accetti, lei chiederà sempre più spazio ed un divano potrà non bastare!
La capacità di accettazione stabile e consapevole di quanto capita nella nostra mente, nel nostro corpo e nella realtà esterna è una grande risorsa della cura di sé e della resilienza per sostenere sia il dolore che la speranza dell’altro di cui ci prendiamo cura.