04 Mag Da dove nasce la violenza sulle donne?
Fra il fenomeno della violenza sui minori e quello della violenza sulle donne c’è un rapporto stretto, profondo. Innanzitutto c’è un rapporto di analogia.
Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali, e a tutti i ceti economici.
Anche il fenomeno della violenza sui minori è endemico: per quanto il dato possa turbare le rappresentazioni idealizzanti della comunità umana, anche il fenomeno della violenza sui minori è endemico: anche se in forme differenziate attraversa storicamente tutte le epoche e tutti i contesti storico-culturali, e si riscontra in tutti i gruppi sociali ed etnici.
Al di là delle non sottovalutabili differenze tra i due fenomeni e tra le situazioni specifiche all’interno di ciascun fenomeno, si può comunque affermare che per affrontare sia il fenomeno della violenza sulle donne che quello del maltrattamento e dell’abuso sui minori, occorre comprendere l’atteggiamento ambivalente della vittima, il suo conflitto tra il parlare e il tacere, tra la richiesta di aiuto, spesso implicita e conflittualizzata e la sfiducia ormai consolidata in sindrome di adattamento alla violenza.
Ci sono tante donne e tanti bambini vittime di maltrattamento che per anni emettono segnali di sofferenza che finiscono per cadere nel vuoto. Abbiamo spesso utilizzato a proposito di questi segnali la metafora dei messaggi che il naufrago affida alla bottiglia, gettata in mare per segnalare una richiesta di aiuto e destinata a restare inascoltata, perché nessuno raccoglierà la bottiglia e nessuno¬ leggerà il messaggio in essa contenuto.
Molte donne e molti bambini vittime di maltrattamento comunicano in modo ambiguo la propria sofferenza manifestando un forte conflitto tra il bisogno di chiedere aiuto e la paura della ritorsione, tra un’esigenza mortificata di autonomia e di sicurezza e una persistente sottomissione psicologica all’autore della violenza.
Un altro punto di analogia sta nella prioritaria sollecitazione che deve essere data agli operatori impegnati a contrastare queste forme di distruttività intraspecifica.
Continuiamo a portare avanti il discorso ad un certo livello di astrazione dalle specifiche differenze tra i fenomeni e tra le situazioni.
In entrambi i casi la violenza colpisce due soggetti deboli, che vivono una vittimizzazione che produce effetti nocivi e confusivi sulle loro risorse soggettive, sulla loro autostima e sul loro potenziale sviluppo evolutivo, sulla rappresentazione e sulla percezione del Sé del bambino e della donna che diventano il bersaglio del maltrattamento.
Le competenze emotive degli operatori sono fondamentali nel comprendere, sostenere, trattare le vittime della violenza, che sviluppano soprattutto negli episodi di abuso più gravi intense reazioni emotive principalmente di paura, rabbia e vergogna.
Affinché il fenomeno della violenza sulle donne possa adeguatamente riconosciuto e trattato nell’intervento sociale e sanitario è importante sviluppare la capacità di ascolto degli operatori. E’ indispensabile ricordare che la comunicazione del malessere inizia molto spesso dall’orecchio di chi ascolta (dalla posizione emotiva dell’operatore, dal suo atteggiamento empatico) piuttosto che dalla bocca di chi parla.
Ascolto attivo ed empatico della donna o del bambino vittime di maltrattamento non significa tuttavia un modo di fare mieloso o buonistico, bensì un atteggiamento disposto a capire piuttosto che a giudicare e nel contempo ad intervenire a sostegno dei bisogni conflittualizzati di autonomia e di sicurezza della donna e del bambino, vittime di violenza.
Anche i dati statistici dei due fenomeni presentano forti analogie. Nel 2006, l’ISTAT ha eseguito un’indagine retrospettiva su un campione di 25 mila donne su tutto il territorio nazionale, raccogliendo i seguenti risultati:
1. Le donne tra i 16 e i 70 anni che dichiarano di essere state vittime di violenza, fisica o sessuale, almeno una volta nella vita sono 6 milioni e 743 mila, cioè il 31,9% della popolazione femminile; considerando il solo stupro, la percentuale è del 4,8% (oltre un milione di donne).
2. Il 93% delle donne che afferma di aver subito violenze dal coniuge ha dichiarato di non aver denunciato i fatti all’Autorità; la percentuale sale al 96% se l’autore della violenza non è il partner.
E’ sorprendente come si ritrovino dati di analoga diffusione nella comunità sociale della violenza sui minori nelle ricerche retrospettive su quest’ultima forma di violenza. In ricerca compiuta dall’Istituto degli Innocenti di Firenze (Cfr. D. Bianchi, E. Moretti, Vite in bilico. Indagine retrospettiva su maltrattamenti e abusi in età infantile, Istituto degli Innocenti, Firenze, 2006) su un campione di 2200 donne per valutare l’incidenza dell’abuso sessuale del maltrattamento in età minorile nella popolazione femminile adulta in età compresa dai 19 ai 60 anni ha permesso di stimare che solo una ridottissima percentuale (2,9%) ha denunciato all’autorità giudiziaria l’abuso sessuale subito.
Un altro punto di analogia tra i due fenomeni sta nella consistenza dei danni mentali ed economici generati dalle due forme di violenza distruttiva.
Sono quasi 17 miliardi di euro l’anno i costi calcolati in base alla prima indagine nazionale sull’identificazione e analisi dei costi economici e sociali della violenza sulle donne realizzata da Intervita Onlus: 2,3 miliardi riguardano i costi monetari diretti dei servizi e gli effetti moltiplicatori economici, oltre 14 miliardi quelli umani e di sofferenza, emotivi ed esistenziali sostenuti dalle vittime, dai loro figli e dai familiari. In generale, nel mondo, l’area più colpita è quella europea con il 37 per cento. Nel 42 per cento dei casi a livello globale, dice l’Oms, le donne restano menomate o con problemi fisici duraturi.
La prima ricerca italiana sui costi della violenza all’infanzia, realizzata dall’Università Bocconi, Terres des Hommes e dal Cismai, stima che, sommando le voci dirette e indirette di spesa, la mancata protezione dei minori costa alla collettività, in Italia, 13,056 miliardi di euro all’anno.
Tra i costi diretti per la cura e l’assistenza dei bambini vittime di maltrattamento, per la voce ospedalizzazione si giunge alla stima di una spesa annua sostenuta di 49.665.000 euro, per la cura della salute mentale di 21.048.510€, mentre per i costi di welfare si sommano le spese per strutture/prestazioni residenziali (163.818.655€), di affido familiare (12.648.948€) e per il servizio sociale professionale (38.052.905€). La spesa per interventi diretti per il rispetto della legge è stata stimata in 3.166.545€ e per la giustizia minorile in 50.215.731€.
Il bambino maltrattato crescendo spesso diventa un adolescente e un adulto problematico, che può gravare sulla collettività. I costi indiretti sono quelli più pesanti: si passa attraverso i 209.879.705€ spesi per l’educazione speciale, i 326.166.471€ stimati per la cura della salute da adulti, 5.380.733.621€ per spese di criminalità adulta, 152.390.371€ per delinquenza giovanile e 6.648.577.345€ di perdite di produttività per la società.
“Le nostre stime portano al risultato che la somma dei costi per il bilancio dello Stato è pari a circa 13 miliardi di euro, ovvero lo 0,84% del Pil nazionale annuo, un risultato non troppo distante dall’1% trovato da Fromm in uno studio simile per gli Stati Uniti”, commenta Paola Profeta dell’Università Bocconi e coordinatrice dello studio. “Una spesa che si traduce in un costo sociale di 130.259 euro per ogni bambino vittima di violenza.”
Ma c’è un aspetto nel quale i due fenomeni si differenziano strutturalmente: la violenza sulle donne è una violenza di adulti contro altri adulti. La sproporzione di potere che esiste fra un uomo e una donna – certamente rilevante e socialmente determinata e riprodotta – non è strutturalmente paragonabile a quella che separa un adulto da un bambino: in questo caso il divario di età, di esperienza, di capacità di negoziazione sociale e giuridica è abissale. Sicuramente definire la violenza sulle donne come una violenza di genere significa affermare correttamente la dimensione “sessuata” del fenomeno visto come manifestazione di un rapporto tra uomini e donne storicamente diseguali che ha condotto e conduce abitualmente gli uomini a prevaricare e discriminare le donne. Ma il sistema adultocentrico che consente, perpetua ed occulta la violenza sui bambini è più arcaico, profondo e radicato nella comunità umana. Gli scritti di Alice Miller sono a questo riguardo fondamentali. La stessa donna non è sempre figura marginale o innocente nella genesi, nel mascheramento e nella trasmissione intergenerazionale della violenza sui bambini.
Senza la violenza sui bambini non ci sarebbe la violenza dell’uomo sulla donna.
Quest’ultima ha certamente svariate cause sociologiche, politiche, culturali, ma senza dubbio trae le più profonde radici dall’antica umiliazione e sofferenza del bambino che diventato adulto rovescia e trasforma la propria sofferenza in trionfo violento e traduce la propria impotenza di un tempo in controllo onnipotente sulla donna, nei confronti della quale può esprimere ulteriormente – con la stupidità emotiva che gli deriva dalla propria infanzia violata e rimossa – un assalto invidioso alla indubbia superiore capacità creativa ed emotiva della donna.
Il fenomeno della violenza sulla donna sta appena emergendo. La violenza alle donne solo da pochi anni è diventato tema e dibattito pubblico: per quanto sia oggetto crescente di dichiarazioni pubbliche di condanna, fenomeni come le minacce, i maltrattamenti fisici, psicologici, sessuali, gli stupri, lo stalking, il femminicidio, la prostituzione forzata non accennano a diminuire.
Per entrambi i fenomeni mancano politiche efficaci di contrasto, scarseggiano ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione.
Ma l’emersione del fenomeno della violenza sui minori fa ancora più fatica ad emergere. Incontra maggiori resistenze. Dopo una prima emersione – negli anni ’80 del secolo scorso – rischia non a caso di tornare per molti aspetti nel silenzio e nel dimenticatoio, nel quale è rimasto per secoli. La sua emersione fa troppa paura, chiama in causa profonde, diffuse e radicate responsabilità della comunità adulta, certamente di molti uomini, di tutti i partiti e di tutte le fedi, di tutte le classi e le professioni, ma anche – in misura certamente più ridotta – di molte donne.