“DEVI VINCERE!”: QUANDO L’OSSESSIONE DEI GENITORI DANNEGGIA I FIGLI

“DEVI VINCERE!”: QUANDO L’OSSESSIONE DEI GENITORI DANNEGGIA I FIGLI

“DEVI VINCERE!”: QUANDO L’OSSESSIONE DEI GENITORI DANNEGGIA I FIGLI

di Edoardo Giordano

I maltrattamenti sui minori possono acquisire diverse forme sia dal punto di vista fisico che soprattutto dal punto di vista psicologico. Una tipologia di violenza psicologica svolta in modo apparentemente inconsapevole, ma non per questo meno grave, è la coercizione dei bambini da parte dei genitori a svolgere attività secondo modalità rischiose e ipercompetitive che non tengono conto dei bisogni di crescita dei figli, ma risultano condizionate dai bisogni narcisistici degli adulti. Un esempio è la modalità con la quale molti ragazzini vengono introdotti e poi sostenuti dai genitori in determinate attività sportive: in questi casi (più numerosi di quanto si pensi) l’obiettivo è focalizzato non sul partecipare dando il meglio o sul divertimento, ma sul vincere a tutti i costi, anche sottomettendo e annientando l’avversario.

Non bisogna pensare che tutto ciò riguardi soltanto i paesi del Sud-Est asiatico, dove gli incontri di arti marziali tra ragazzini sono all’ordine del giorno (soprattutto per esigenze economiche delle famiglie.

Ciò che nel nostro “civilizzato Occidente” può spingere i genitori adulti a spronare fino oltre i limiti del maltrattamento i loro pargoli è la soddisfazione personale. Infatti i figli di questi adulti “maltrattanti” sono utilizzati come mero strumento di realizzazione di desideri individuali insoddisfatti, di frustrazioni legate ad un futuro tanto desiderato ma mai raggiunto. Il malessere interiore del genitore tende ad essere compensato dai successi sportivi del figlio. Vincere è un obbligo, anche a costo di sopraffare o addirittura aggredire i figli altrui.

Un caso salito alle cronache recentemente in seguito ad un servizio de “Le Iene” è  quello delle gare di minimoto, prima tappa per tutti i giovani che vogliono intraprendere una carriera da motociclista per emulare i loro idoli ammirati in tv (primo su tutti Valentino Rossi). Queste competizioni si svolgono tra bambini dai 6 ai 12 anni su piccole moto che possono arrivare anche a 100km/h, il che comporta una certa pericolosità. Questi bolidi possono essere guidati da qualsiasi bambino,  con tutti i rischi che ne conseguono: cadute, incidenti, scontri, traumi, danni più o meno gravi, o anche la morte (l’ultima vittima ha perso la vita a maggio scorso, in provincia di Torino, a soli 8 anni). Tutto questo però non ferma i genitori che spronano i loro figli a correre, a rialzarsi anche dopo rovinose cadute, ad arrivare davanti agli altri, ad ignorare il dolore dovuto ad incidenti appena accaduti, a buttare giù gli avversari, perché l’unico modo per sentirsi qualcuno è che il proprio ragazzo arrivi primo. La felicità del genitore viene messa davanti non solo alla felicità del figlio ma anche davanti alla sua salute. Certo, ai bambini piace correre con le moto, alcuni di essi vorrebbero diventare davvero come Valentino Rossi. Alcuni di loro  magari finiranno anche in MotoGP, e molto di loro sono consci dei rischi che corrono in questo sport, ma è l’atteggiamento dei genitori ad essere deleterio. Infatti in seguito a sconfitte e cadute, invece che consolati e incoraggiati, i ragazzini vengono spesso sgridati, colpevolizzati e isolati da padri e anche madri, ignorando il loro stato d’animo e il loro bisogno affettivo in seguito alla delusione della gara. Gli stessi bambini interiorizzano quel sentimento di delusione e frustrazione del genitore che va ad aggiungersi al sentimento di sconfitta per il risultato al di sotto delle aspettative, generando un senso di colpa esagerato per un bambino che invece dovrebbe semplicemente divertirsi facendo ciò che gli piace, al di là delle vittorie. Essi spesso sono così convinti di essere i principali responsabili delle loro sconfitte che ripetono a pappagallo ciò che i genitori dicono loro: “Sono io che non ci ho creduto fino in fondo…e poi era anche il motore”,  spiegano alcuni baby piloti dopo una caduta che è costata loro la gara. Alcuni genitori pur di veder vincere il proprio erede e fregiarsi così di una vittoria che faranno propria, insegnano ai bambini a “passare cattivi” anche buttando giù il proprio rivale, in barba a quelli che sono i valori di sportività e competizione leale. Tutto questo comporta nei ragazzini l’evoluzione di un pensiero anti-sportivo e di scarsa sopportazione della sconfitta. Lo sport viene così privato per loro della componente ludica, l’unica che dovrebbe essere importante in quel periodo della vita.

Questi atteggiamenti di “intenzionamento” a trasformare la corsa in un dramma competitivo  da parte dei genitori si riflettono poi sulla capacità di elaborare le frustrazioni da parte dei loro figli, sulle loro abilità emotive, sui valori di rispetto di sé e degli altri, sul significato che si dà alla competitività e alle sconfitte. Proprio per gli effetti dannosi sia a breve che soprattutto a lungo termine sull’equilibrio psichico dei figli, questa pressione genitoriale può essere considerata un vero e proprio abuso sul minore, tenendo conto non solo dei danni psicologici causati al soggetto in età sensibile, ma anche dei danni fisici che questa attività può causare e causa ai ragazzi; un rischio che spesso viene trascurato in nome dei “necessari sacrifici dei campioni”. Nei fatti ha la meglio una logica dove domina la soddisfazione dei desideri adulti e la compensazione delle frustrazioni adulte, una logica  che lascia in secondo piano quelli che sono i reali bisogni dei bambini.

Cosa fare dunque per limitare situazioni così estreme ma anche così diffuse?  Restando sul caso specifico, occorrerebbe innanzitutto  limitare la pericolosità di questo sport riducendo la velocità delle minimoto e aumentare le protezioni dei piloti anche a costo di ridurre lo “spettacolo”. Inoltre sarebbe utile far frequentare ai genitori che portano il figlio a svolgere una attività agonistica un corso introduttivo di rispetto dei valori sportivi, anche insieme ai ragazzi, per far capire loro quali sono le priorità del bambino e quali i comportamenti da adottare nei suoi confronti; così si potrebbero prevenire da subito gli atteggiamenti eccessivamente competitivi e anti-sportivi che possono generarsi durante le gare, prestando maggiore attenzione ai bisogni di svago e di educazione dei ragazzi e quindi al loro benessere psico-fisico.