GIOCHIAMO PER ASCOLTARE, ASCOLTARE PER PREVENIRE E CAPIRE di Nadia Bolognini

GIOCHIAMO PER ASCOLTARE, ASCOLTARE PER PREVENIRE E CAPIRE di Nadia Bolognini

Al convegno “L’educazione sessuale che non c’è, l’abuso sessuale che c’è e il mancato ascolto del bambino” organizzato dal Centro Studi Hansel e Gretel e da Rompere il silenzio, parteciperà fra gli altri Nadia Bolognini, direttrice dell’area evolutiva del Centro Clinico del Centro Studi Hansel e Gretel e psicoterapeuta de “La cura” (Bibbiano (Reggio Emilia).

Pubblichiamo qui una parte di un suo scritto molto interessante[1] che descrive un intervento di formazione – basato sul gioco e sull’intelligenza emotiva – con un gruppo di adolescenti finalizzato alla prevenzione dell’abuso. Il lavoro parte da un’elaborazione di un episodio di cronaca: un bambino di dieci anni di nome Claudio è stato ucciso dopo aver subito violenza sessuale. La piccola vittima conosceva il suo abusante, dal quale è stato prima irretito, poi ucciso senza trovare l’ascolto e la fiducia necessari per poter chiedere aiuto e rivelare lo svolgimento dell’abuso. Il gruppo di adolescenti passa da una posizione d’incomprensione e di condanna per la vittima ad un atteggiamento di identificazione e di comprensione cognitiva ed emoed emotiva.  Ecco il testo.

(…)

Purtroppo le due ore disponibili sono quasi giunte al termine. Ho appena il tempo di sintetizzare tutto il materiale emerso. Al termine dell’incontro vi sono ancora alcuni interventi che esprimono riflessioni molto importanti e profonde:

Gianni: “Gli adulti non possono fare queste cose, sono loro che sbagliano. Non è Claudio ad avere sbagliato ma quell’uomo. Forse Claudio non aveva nessuno con cui parlare”.

Marta : “Oggi ho capito che non è sbagliato provare vergogna, imbarazzo, ho capito che tutti le avremmo provate in quelle situazioni, e il parlarne con qualcuno ci aiuta a stare meglio. Se ci teniamo tutto dentro stiamo male. Forse è importante trovare qualcuno che ci ascolti, come è successo oggi qui.”

Monica prima di congedarsi dice: “Mi è piaciuto questo viaggio. Se a una mia amica accadesse una violenza, una cosa del genere, io penso che ora riuscirei a capirla di più, e non penserei che avrebbe dovuto dirlo o che ha sbagliato ad andare ancora da quell’uomo. Credo che l’ascolterei e forse capirei di più, e l’aiuterei a parlarne.”

Inizialmente i ragazzi esprimevano la propria difficoltà a comprendere perché Claudio, vittima di un abuso sessuale, non abbia mai parlato con nessuno dell’accaduto. Non capivano perché Claudio non avesse chiamato ad esempio il Telefono Azzurro o non avesse denunciato tutto ai carabinieri. Essi esprimevano anche una certa disapprovazione per il comportamento di Claudio, considerato in un certo senso responsabile del perpetuarsi dell’ abuso. Solo successivamente, attraverso l’abbandono di una posizione idealistica e doveristica e con un’autentica identificazione con la vittima di abuso, i ragazzi hanno compreso i vissuti emotivi e le difficoltà che impediscono lo svelamento di tale segreto. Dunque si è passati da una posizione che in qualche misura colpevolizzava la vittima ad una posizione che la decolpevolizza, sollecitando la responsabilità della comunità che circonda la vittima, spesso senza proteggerla adeguatamente, e valorizzando il ruolo di comprensione e di sostegno dell’ascolto (“Gli adulti non possono fare queste cose, sono loro che sbagliano. Forse Claudio non aveva nessuno con cui parlare”). Emergono nella conclusione dell’incontro preziose intuizioni su quanto è inefficace colpevolizzare i sentimenti (“non è sbagliato provare vergogna, imbarazzo, ho capito che tutti le avremmo provate in quelle situazioni”) e su quanto è pericoloso assumere atteggiamenti giudicanti nei confronti delle vittime (“Se a una mia amica accadesse una violenza, una cosa del genere, io penso che ora riuscirei a capirla di più, e non penserei che avrebbe dovuto dirlo o che ha sbagliato ad andare ancora da quell’uomo”).

La campanella suona, è il segnale inequivocabile che dobbiamo salutarci. Nessuno si alza, sembra esserci in tutti noi il desiderio di non terminare l’incontro e la voglia di rimanere ancora insieme su questo strano treno, che ci ha portato tanto lontano e nello stesso tempo ci ha permesso di stare molto vicini gli uni agli altri. Ci salutiamo. I ragazzi con i loro zaini pieni di libri e forse con qualche emozione in più se ne vanno. Li guardo uscire dalla scuola e un sentimento di tristezza mi invade. Ho ascoltato 26 ragazzi che disperatamente mi hanno fatto sperimentare nuovamente la forte solitudine nella quale spesso la piccola vittima di abuso si ritrova schiacciata nella confusione e nella solitudine, una vittima che da sola non ce la fa a svelare il proprio segreto, sommersa dalla vergogna, dal senso di colpa, dalla disistima di sé. Mi porto dentro l’intervento di Luca che lucidamente dice: “Ma noi ragazzi cosa possiamo fare se non c’è nessuno con cui parlare?” Se non c’è nessun adulto disponibile ad ascoltare i ragazzi come possiamo prevenire situazioni di piccoli e grandi abusi. Non vi può essere prevenzione se non c’è ascolto. Credo che la mia tristezza sia dovuta prevalentemente al fatto che ho sentito da parte dei ragazzi come un urlo rivolto alla comunità adulta. “Da soli non ce la facciamo!”. Se non c’è un adulto disposto ad ascoltare il disagio affettivo, relazionale, sessuale dei bambini e dei ragazzi, se non c’è un adulto disposto ad ascoltare la loro vita emotiva, il silenzio che circonda e perpetua l’abuso, il silenzio che circonda e perpetua altre forme di sofferenza non può venire infranto. Mi porto dentro il testo del bigliettino scritto dal ragazzo con diagnosi di autismo: “Adulto furbo non lascia prove, pochi avrebbero creduto, nessuno agito”. In un’unica frase ha riassunto quella che rimane ancora la tremenda realtà dell’abuso sessuale per molte vittime: un bambino impotente di fronte al potere di manipolazione dell’adulto, un bambino solo e destinato spesso a non essere creduto, solo con la propria pena, con le sue incertezze, i suoi conflitti e le proprie difficoltà emotive, senza nessuno con cui parlare, senza nessuno che si ponga come testimone soccorrevole della sua sofferenza.

Possiamo chiederci che cosa è accaduto in questa classe? Durante l’incontro si è creato via via un clima di intimità psicologica derivato da un progressivo abbassamento delle difese, di solidarietà e di reciproca accettazione delle difficoltà di ciascuno. Non basta che i sentimenti vengano comunicati, esternati, espressi, occorre che vengano espressi alla presenza empatica e contenitiva di un interlocutore, di un singolo o anche di un gruppo, capace di svolgere questa funzione. Questo ha permesso ai ragazzi di prendere contatto con la propria realtà emotiva, facilitando una comunicazione autentica ed arricchente. Il clima empatico, accogliente, non giudicante, basato sulla disponibilità all’ascolto ha permesso ai ragazzi di esprimersi, di tollerare la vergogna, l’imbarazzo, e il senso di colpa. I ragazzi si sono sentiti accolti e rispettati e questo gli ha permesso di essere se stessi con le proprie difficoltà, con i propri disagi e le proprie sofferenze: hanno potuto così finalmente svelare alcuni dei loro piccoli e grandi segreti. Il gruppo ha potuto prendere consapevolezza del fatto che la comunicazione di situazioni e episodi di piccola o grande vittimizzazione è penosa e conflittuale, tutt’altro che semplice ed immediata. Spesso come dice Francesco: “Non si trova il coraggio per parlare, anche se sai che devi farlo.” Si rimane così condizionati da un mortificante silenzio senza avere la possibilità e la forza di romperlo.

D’altra parte il gruppo coglie l’importanza della parola, la necessità di rompere l’isolamento e il silenzio della piccola vittima di abuso, il bisogno che quest’ultima esprime nei confronti di un adulto in grado di avvicinarsi con la parola alla sua sofferenza, un adulto disposto ad ascoltarla in modo empatico, identificandosi con lei. Un adulto tuttavia che sia libero da un modello doveristico ed efficientistico, basato su imperativi quali: “Devi denunciare, devi disporti a raccontare tutto immediatamente senza reticenze…”

Poco tempo dopo questa esperienza fui convocata, presso il Tribunale per i minorenni di Torino, da un Giudice Onorario per discutere di una situazione di grave abuso sessuale a danno di una bambina. La minore veniva abusata ripetutamente dal padre da diversi anni in un contesto di gravissima violenza fisica e psicologica e non aveva mai raccontato prima il proprio abuso. Solo recentemente aveva iniziato a raccontare la propria drammatica esperienza alla propria psicologa. La minore peraltro manifestava gravi segnali di sofferenza e continuava ad essere abusata. Dopo aver discusso per più di un ora riguardo alle difficoltà della minore di raccontare verbalmente in modo esplicito il proprio abuso, il Giudice mi disse perplesso: “Ma scusi, perché questa bambina non lo ha detto prima? Perché non ha chiamato il Telefono Azzurro per raccontare il proprio abuso”. E subito dopo: “Beh! Se non chiamava il Telefono Azzurro avrebbe potuto raccontare tutto alle sue insegnanti”. Ho ascoltato con tristezza e rabbia queste domande, ed ho constatato nuovamente come noi adulti abbiamo grandi difficoltà a metterci nei panni dei bambini, come noi adulti spesso ci trinceriamo dietro a posizioni adultocentriche e doveristiche in cui pretendiamo che il minore si disponga subito e in modo chiaro a narrare il proprio abuso, senza sforzarci a comprendere la sua specifica condizione di dolore, di terrore, di impotenza, di difficoltà ad acquisire fiducia nella parola e nella relazione.

Giocando si può ascoltare. Giocando si può imparare. Personalmente ho appreso almeno quattro cose. Quattro cose, che in qualche misura già intuivo e conoscevo, ma senza quella comprensione viva che ho potuto raggiungere soltanto attraverso l’esperienza di gioco e di ascolto che ho compiuto nella seconda media di Marco, Raffaella, Gianni, Marta, Monica, Luca e di altri 20 loro compagni.

Ho imparato e verificato:

  • che è di fondamentale importanza raggiungere una rappresentazione realistica della piccola vittima di abuso sessuale, una rappresentazione non basata idealisticamente su ciò che una vittima dovrebbe fare, ma su ciò che concretamente può fare sulla base della propria condizione di fragilità ed impotenza;[2]
  • che l’ostacolo principale – nel raggiungimento di questa immagine adeguata e realistica della vittima di abuso è dato dalla difficoltà ad identificarsi con la debolezza e l’inermità della condizione della vittima;[3]
  • che la comprensione della situazione in cui vive la piccola vittima di abuso può avvenire attraverso il riconoscimento delle proprie esperienze soggettive, nelle quali si è vissuta in qualche modo la condizione di fragilità e di impotenza della vittima; e che nel contempo la comprensione emotiva e cognitiva della vittimizzazione favorisce la possibilità di mentalizzare e di integrare le proprie componenti di vittimizzazione e di sofferenza;[4]
  • che i bambini e i preadolescenti possono essere in grado di sviluppare il percorso mentale necessario all’identificazione emotiva e alla comprensione cognitiva della situazione e della problematica reale della vittima più di quanto non riescano a fare molti adulti culturalmente e professionalmente attrezzati, ma emotivamente incapaci a sintonizzarsi e a identificarsi con la condizione di debolezza ed inermità della piccola vittima e pertanto irrigiditi nei loro schemi ideologici.

 

 

[1] L’articolo integrale è contenuto in Cristina Roccia (a cura di), Riconoscere ed ascoltare il trauma, Angeli, 2001.

[2] Cfr. C. Roccia, L’ ambivalenza della piccola vittima di abuso sessuale fra amore e odio per l’abusante, in : Il dramma dell’abuso sessuale sui bambini, Quaderni del Centro Studi Hänsel e Gretel.

[3] Cfr. F. de Zulueta, (1999) Dal dolore alla violenza, Cortina, Milano.

[4] Cfr. H. Kohut (1982) La ricerca del Sé, Boringhieri, Torino.