I SENSI DI COLPA DELLE VITTIME E IL CONTRASTO ALL’ABUSO RICICLANDO LE EMOZIONI

I SENSI DI COLPA DELLE VITTIME E IL CONTRASTO ALL’ABUSO RICICLANDO LE EMOZIONI

«Il padre di Clarissa L. ha cominciato a molestarla quando aveva dodici anni. Diceva di farlo per il suo bene: “Siamo parte di una razza superiore e questo è il mio dono per te”».

Così inizia un efficace articolo in prima pagina de ‘La stampa’ di domenica 31 luglio. http://www.lastampa.it/2016/07/31/italia/cronache/un-bambino-su-dieci-molestato-dai-pedofili-allo-stato-non-importa-kwDF4rH59IhZWezkbTBwmI/pagina.html. L’articolo di Andrea Malaguti «Un bambino su dieci molestato dai pedofili: “Allo Stato non importa”» centra l’attenzione dal punto di vista delle vittime sul problema della pedofilia.

«Una presunta super-intelligenza (quella del padre di Clarissa) che si fondava su un’ idea schifosa: “La società è piena di tabù, il mondo vive stipato in una gabbia per polli e noi dobbiamo aprire la gabbia e abbattere i tabù, primo fra tutti quello dell’incesto”. Lo ha abbattuto il tabù e ha abbattuto anche Clarissa.  Per sei anni consecutivi.  Poi lei si è rivolta a un insegnante, quindi a uno psicologo, infine ai carabinieri, che sono andati ad arrestare il padre, che di mestiere insegnava matematica. L’hanno condannato a sei anni e mezzo di galera. Ne ha passato uno ai domiciliari. “Dietro le sbarre, però, non è rimasto neanche un giorno. Ma la cosa che mi fa più male è un’altra. L’ultima frase che gli ho detto prima che salisse sul camper e provasse inutilmente a scappare alle forze dell’ordine è stata: ‘scusa papà, non ti volevo denunciare’”.

I sensi di colpa. La vergogna. L’idea di avere rovinato la famiglia, anche quella mamma, professoressa anche lei, che giurava di non essersi accorta di nulla. Così Clarissa non sapeva più se di questa storia – la sua – era la vittima o il carnefice. “Ci ho messo del tempo a rendermi conto di come sono andate le cose. Non avevo gli strumenti per arrivarci. Ma dopo avere ritrovato l’equilibrio l’ho denunciato una seconda volta, quando ho scoperto che aveva aperto un blog in cui adescava bambini e bambine”. Lei era cambiata. Lui no.

Mentre andava alla polizia postale a denunciarlo le è tornato in mente il materasso dove qualche volta il padre – esattamente come faceva in camera, sotto la doccia, in cucina, sul camper, ovunque – abusava di lei. Era in mezzo a un campo e per raggiungerlo bisognava attraversare un tunnel naturale fatto di arbusti. “Attorno al materasso c’erano bambole e macchinine. E io a dodici anni con le bambole non giocavo più”. Non è difficile immaginare l’orrore di quel luogo.  La parola che Clarissa usa più spesso per raccontare quegli anni è “confusione”, come se il genitore pedofilo le avesse affondato un cucchiaio nella testa per mescolarle il cervello. Sei l’uomo che mi deve proteggere o sei un mostro? “Alla fine non era tanto il sesso a farmi male, quanto questa gigantesca impossibilità di capire”».

L’articolo di Andrea Malaguti cita fra l’altro il lavoro del Centro Studi Hansel e Gretel che punta sull’intelligenza emotiva nella prevenzione e nel contrasto nei confronti dell’abuso sessuale sui bambini:

«La legge di Stabilità del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato. E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi. Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te. E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa? »