03 Apr IL BAMBINO INTERIORE, L’ADULTO INTERIORE BUONO E LA POESIA DI GIOVANNI PASCOLI di Claudio Foti
Nella attività formativa dl Centro Studi Hansel e Gretel proponiamo una riflessione teorica ed esperienziale sul bambino interiore presente nell’adulto, presente nel genitore, nell’educatore, nell’assistente sociale, nell’insegnante, nello psicologo, nel professionista dell’infanzia. La tesi su cui insistiamo è la seguente: se non c’è un confronto con il nostro bambino interiore, con le radici – sia gioiose che sofferte, sia armoniche che conflittuali – della nostra infanzia non si può lavorare in modo corretto e fruttuoso on i bambini reali, quelli in carne ed ossa di cui dobbiamo occuparci.
C’è una teoria (Chopich e Paul) – a cui facciamo riferimento – che afferma: in ogni adulto ci sono quattro figure, quattro ruoli interni che siamo chiamati a conoscere e ad affrontate. Queste figure esprimono contenuti differenti a seconda della storia personale e del funzionamento psicologico dei diversi individui, ma sono comunque sempre presenti in ogni individuo. 1. C’è il genitore interiore nocivo (maltrattante, trascurante o comunque non rispettoso a seconda dei casi) che ricalca gli aspetti peggiori dei messaggi delle figure accudenti. 2. C’è un bambino che è stato condizionato dal suddetto adulto e che ha assunto il punto di vista (per es, svalutante) di questo adulto e che tenta di reagire come può al messaggio condizionante che ha ricevuto (da questo genitore o figura accudente che sia).
3. C’è un adulto buono, più o meno forte, più o meno consistente, che tenta di sostenere, valorizzare o aiutare il soggetto. In questo caso ricalca i messaggi migliori delle figure genitoriali o comunque accudenti. 4. C’è infine il bambino amato, che esprime una carica vitale positiva, un atteggiamento di apertura, curiosità, un desiderio di appassionarsi e di giocare, una tendenza a cercare il legame profondo che lega ciascun individuo agli altri esseri. La teoria è di grande interesse ed offre diverse possibilità e di approfondimento e di aiuto per il cambiamento.
La poesia di Giovanni Pascoli la voce contiene un buon esempio di cosa può essere la figura al punto 3, un adulto interiore capace di amare e di sostenere mei momenti più bui, una presenza capace di indicare una speranza ed una prospettiva positiva nei momenti di difficoltà, capace di alimentare un pensiero benevolo ed affettivo in grado di tenere a bada le pulsioni distruttive ed autodistruttive,
C’è una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:
voce d’una accorsa anelante,
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:
tante tante cose che vuole
ch’io sappia, ricordi, sì… sì…
ma di tante tante parole
non sento che un soffio… Zvanî…
Quando avevo tanto bisogno
di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno,
svegliandomi al primo boccone;
una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, Si beve?);
dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto daccanto
quel soffio di voce… Zvanî…
C’è una voce – scrive dunque il poeta – che mi risuona nell’anima nei momenti di maggiore sconforto. C’è una voce che riesce, pur faticosamente, a farsi strada tra pensieri di stanchezza e di smarrimento. E’ la voce di mia madre dalla sua tomba, che mi protegge dallo sconforto e dai pensieri di suicidio’ compiere atti insani richiamandomi all’amore per la vita e ad un senso profondo di moralità. E’ una voce che mi risuona e sembra chiamarmi con il nomignolo affettuoso che mia madre mi dava da bimbo: Zvanì (Giovannino, in dialetto romagnolo). E’ sempre la stessa voce che mi distolse dall’uccidermi quando volevo gettarmi nel fiume Reno e quando, condannato, in carcere per ragioni politiche, volevo morire sopraffatto dall’ingiustizia degli uomini.
Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all’improvviso
dissi – Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso,
ora, o babbo! – che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:
e che agli uomini, la mia vita,
volevo lasciargliela lì…
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio… Zvanî..
E così tante altre volte – prosegue il Pascoli – quella voce mi parlò e mi salvò. La voce come “oggetto buono”. Vivi – diceva – vivi Zvanì. Grazie a questa forza il poeta ha affrontato i tanti passaggi critici della sua vita. La storia dell’infanzia di Pascoli è costellata di lutti, e tutta la sua esistenza ne è stata segnata con vissuti di solitudine e di abbandono.
La madre morta rimane comunque la sorgente di una preghiera aperta alla speranza e di un incoraggiamento a vivere e a coltivare una moralità, che non è tanto rispetto delle norme formali quanto piuttosto una alta forma di rispetto di sé e degli altri.
E’ una poesia suggestiva e straziante, che non cessa di coinvolgermi e commuovermi. Ne voglio ancora riportare le ultime strofe.
Quante volte sei rivenuta
nei cupi abbandoni del cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:
voce d’una accorsa anelante
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:
la tua bocca! con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì!
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci… Zvanî!…
che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!
che ti lessi negli occhi, ch’erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d’essere buono!
Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso… Zvanî…