Coinvolgere, con la mente e col cuore, gli autori di reato (C. Foti, S. Carnisio, R. Bianco)

Coinvolgere, con la mente e col cuore, gli autori di reato (C. Foti, S. Carnisio, R. Bianco)

LA PRESENTAZIONE IN CARCERE DEL PROGETTO “OLTRE LA COLPA”. 

di Claudio Foti

Abbiamo avviato 4 gruppi di confronto e di elaborazione emotiva con detenuti sex offenders  nel carcere Lorusso- Cotugno (le Vallette) e un gruppo nel carcere di Saluzzo.  La metodologia proposta è quella che abbiamo elaborato in 25 anni di esperienza formativa e comunicativa e terapeutica del Centro Studi Hansel e Gretel e che viene adattata alle diverse situazioni e ai diversi soggetti con un’attenzione alle specifiche caratteristiche del contesto e dei compiti del gruppi.  In questi anni abbiamo proposto la nostra metodologia ai più  vari soggetti e tra questi anche ai detenuti autori di reati sessuali: persone portatrici di una grande sofferenza, attuale e passata e che si portano sulle spalle il peso di aver dato con il loro reato una grande sofferenza ad altre persone, donne e bambini.

La nostra ottica è quella di offrire una prospettiva di aggregazione, riflessione e cambiamento a queste persone, che – come diciamo spesso – non sono mostri, anche se possono aver fatto cose mostruose. Nella loro infanzia e nella loro adolescenza queste persone, attualmente detenute, sono vissute in ambienti in qualche misura deprivanti ed umilianti. Purtroppo non hanno trovato di meglio che rovesciare su soggetti indifesi  la mortificazione,   la dimenticanza e/o la vittimizzazione di cui sono stati oggetto.  Certamente Il nostro impegno ha una finalità riparativa nei confronti di queste persone. Vuole sollecitare in  questi  detenuti imput di  sostegno emotivo, di ricostruzione di una dignità personale e nel contempo di rielaborazione delle colpe, con la finalità di promuovere processi riparativi nei confronti delle vittime e di ridurre il rischio di una recidiva ai danni di nuove vittime potenziali.

Presento due narrazioni molto vive, due report molto significativi della conferenza di presentazione del progetto, denominato “Oltre la colpa” a cui hanno partecipato il 13 marzo una cinquantina di detenuti del Carcere di Torino.  I report sono stati elaborati da due degli otto conduttori che parteciperanno con me alla realizzazione dell’iniziativa: Silvia Carnisio e Roberto Bianco.

Nel mio intervento comunico alcune immagini. La prima è quella della caduta del bambino che imparare a camminare. E’ importante che questo bambino trovi  qualcuno che lo aiuti, anche quando si fa male, ad accettare la caduta, a rialzarsi, a riprendere con fiducia il compito di imparare  a camminare,  perché nel processo evolutivo la caduta, la difficoltà, l’errore, l’insuccesso non sono  un optional, bensì  un elemento costitutivo della crescita, pur che si possa apprendere dall’esperienza. La seconda immagine è quella del nostro logo sull’intelligenza emotiva, la prospettiva metodologica e culturale che orienta la conduzione dei gruppi del nostro progetto: il logo prevede un cuore rosso vivo, simbolo universale dell’affettività e dell’emotività che abbraccia una lampadina accesa, espressione della lucida consapevolezza che appartiene potenzialmente ad ogni essere umano.  Ho detto ai detenuti che, se è giusto che la società tolga per un periodo la libertà a chi ha commesso gravi reati, nessuno può comprimere nella persona del detenuto la libertà di sentire, comprendere la vita emotiva, la possibilità di imparare a riconoscere, illuminare, padroneggiare il cuore rosso vivo presente in ognuno di loro.  La terza immagine è quella che rinvia ad un rapporto interattivo tra la testa e il cuore, tra la razionalità e le emozioni: è la metafora del cavaliere che sa dialogare con il proprio cavallo, senza soffocarlo con una briglia troppo stretta e che si mostra capace comunque di condurlo, senza farsi portare a spasso o peggio disarcionare dal cavallo.

 

 ACCETTARE LA CADUTA

di Silvia Carnisio

Già per arrivare al carcere mi perdo tre volte. Arrivo in zona e devo ripetutamente chiedere informazioni, perché per il carcere Lorusso- Cotugno non c’è nessuna indicazione stradale. E la via Maria Adelaide Aglietta non esiste su Tuttocittà. Penso con fastidio che forse questo luogo così intensamente abitato non è neanche nominabile, pertanto non appare sulle mappe. “The sordid shame of the big city” (la sordida vergogna della grande città), direbbe O. Wilde…

Finalmente imbocco la strada giusta, all’inizio della quale, ora sì, trovo un cartello stradale.

Mentre aspetto di entrare, noto persone in abiti estivi e mi accorgo che è arrivata la primavera. Mi attardo a godermi il calore del sole, penso che tra non molto andrò in vacanza al mare e, con estrema tristezza, mi rendo conto che io posso, le persone che sto per incontrare no. Immagino che alcuni di loro si siano lasciati alle spalle un paese pieno di sole, Tunisia? Egitto? in cerca di una fortuna che non hanno trovato. Partiti dal caldo per incontrare il freddo.

Realizzo ora che nei miei ultimi tre trattamenti shiatsu ricevuti sono comparse immagini di prigioni sotterranee e ruote di tortura. Il mio inconscio ha registrato che quello che sto per fare non sarà certo una passeggiata. Superati i cancelli ed i vari controlli, e percorso il lungo corridoio chiamato “Corso Francia”, Foti ci chiede qual è la nostra prima impressione. Rispondo che spero che i detenuti siano meglio dei secondini. Evidentemente la vita del carcere abbruttisce anche chi ci lavora.

L’edificio mi pare trasandato, peggio della scuola in cui lavoro, e l’ottava sezione è anche sporca. Un detenuto sta pulendo la stanzetta in cui avverrà il nostro incontro. Mi chiedo se sia stato costretto a farlo, o se si sia offerto volontario: un gesto di cura ed accoglienza per noi che arriviamo e per il lavoro di gruppo che sta per iniziare? E’ un detenuto che Foti riconosce. Si salutano con affetto.

I detenuti entrano alla spicciolata, man mano che aprono la porta della loro cella, ognuno con il loro sgabello. Qualcuno ne è privo ed i loro compagni, invitati a procurarne altri, rispondono che ne hanno solo uno, o il loro è rotto. Penso alle mie stanze affollate di mobili ed oggetti, e loro con un solo sgabello, neanche intero. La loro preoccupazione maggiore sembra quella di trovare una sedia per Anita, che è rimasta in piedi, unita a quella di non occupare spazio. Molti sono gentili, alcuni evidentemente imbarazzati, altri hanno in viso un’espressione dura e non ci guardano in faccia. Quasi tutti si presentano con una stretta di mano.  Mi sento a disagio: indosso un abito che, pur non avendo nulla di seduttivo, mi distingue come femmina in un mondo di maschi, e mi maledico per non aver avuto il tempo di cambiarmi, al ritorno da scuola. Per tutto il tempo mi tengo il soprabito sulle ginocchia, nel tentativo di non esporre il tratto di gamba tra l’abito e lo stivale. Nonostante ciò noto che un ragazzo mi osserva con un’espressione che non mi piace. La prossima volta rigorosamente in pantaloni, piuttosto una tuta da ginnastica.

Foti inizia a parlare, in modo semplice, spontaneo, appassionato. Spiega perché ci chiamiamo “Hansel e Gretel”, e avverto un incoraggiante senso di appartenenza.  Intanto  io li osservo uno ad uno, e non posso fare a meno di domandarmi quale reato abbiano commesso. Vedo che due di loro sono anziani in ciabatte, profonde rughe sul volto. Mi chiedo se sono invecchiati qua dentro. Altri invece sono giovani che ostentano un’aria spavalda, ma la durezza del loro volto tradisce l’animo impaurito di pulcini bagnati. Un altro ha un aspetto molto curato anche negli abiti che indossa, si siede in posizione quasi centrale. Parla con determinazione, ammette la sua colpa, ritiene di avere un prezzo da pagare e si dice disposto a pagarlo, sembra animato da speranza e fiducia.

E Foti parla, tutti ascoltano attenti, alcuni lo guardano in faccia, assorti, annuiscono a tratti. Ma altri guardano nel vuoto, sembrano concentrati su un altro luogo, oltre…  Nei loro occhi si leggono sofferenza ed angoscia, sembrano perduti in un abisso di dolore e paura. Ciò che vedo mi contagia, sento che sale in me il malessere, mi chiedo chi me lo ha fatto fare e se sarò all’altezza. Poi mi colpisce un passaggio del discorso di Foti: “Qual è, secondo voi, il momento più importante nella vita di un bambino? Quando muove il primo passo? Quando dice la prima parola? Quando spunta il primo dentino? Secondo me è quello in cui cade la prima volta, perché lì ha occasione di sentire come reagiscono gli adulti che lo accompagnano nel faticoso processo di crescita. E’ importante che gli adulti di riferimento sappiano accettare la caduta, che sappiano insegnare al bambino che essa è inevitabile, costitutiva del processo di apprendimento, occasione di miglioramento e crescita.”

Come è consuetudine nella nostra metodologia, i detenuti vengono quindi invitati ad esprimere un’emozione su ciò che hanno sentito. Non si fanno attendere, hanno bisogno di parlare e di essere ascoltati. Quando prendono la parola spesso parlano a lungo. Alcuni di loro che hanno già fatto parte del gruppo di Foti lo scorso anno dicono che sono contenti di riaverci qua. Una voce fuori dal coro  dice “No, io non sono proprio contento, credevo di aver risolto i miei problemi ma non è così,  perché tu vieni qui, parli, senti il tuo dolore, e poi voi andate via e non si risolve niente. Non ci volevo proprio venire” . Sorrido, tra me e me, perché so che nessuno lo ha obbligato a ritornare. Un altro ci parla di illusione “questo che si fa qua è un’illusione”, ma anche lui è tornato.

Anche io esprimo la mia emozione, che si riferisce alla caduta a cui accennava Foti. Vorrei esprimere la mia difficoltà a tollerare e sostenere me stessa quando cado, o i miei allievi, o mio figlio,  ma faccio fatica a mettere a fuoco i miei sentimenti: mi aiuta uno di loro, suggerendomi che quello che provo è impotenza. Mi sento ascoltata a mia volta, e la mia angoscia si allenta, diventa compartecipazione. Ero stata incerta se dire che nella vita faccio l’insegnante, temevo che questo potesse creare una distanza o il timore di essere sottoposti a giudizio e valutazione, ma poi ho deciso che l’autenticità paga sempre, ed in questo momento tocco con mano che è proprio così. Emergono i temi della colpa, che Foti sottolinea come sentimento nobile, quello della solitudine e del dolore di non vedere i propri figli crescere e cadere. A tratti la discussione sfiora l’ideologia, e Foti deve contenere il gruppo che si anima.

L’incontro volge al termine. Foti conclude sottolineando la differenza tra il reato e la persona, ed io sento che il lavoro che abbiamo fatto in equipe ci ha preparati proprio a questo: non sento avversione per queste persone e, quando all’uscita Foti commenta che i veri delinquenti sono quelli che stanno fuori, quelli troppo scaltri e protetti per farsi acciuffare, sento che è vero. Quelli che stanno dentro sono poveri esseri umani che stanno toccando il fondo, e che forse nessuno ha mai aiutato a rialzarsi.

Mentre escono mi accorgo che non ho memorizzato i loro nomi, molti dei quali stranieri e non facili da ricordare. Non so come si chiama l’uomo che mi avvicina, mi stringe la mano e mi dice: “Grazie, signora, mi è piaciuto quello che ha detto.” Stamattina in classe ero una “prof:”; qui, in carcere, sono diventata una Signora.

Decido di non andare alla lezione di yoga ma di andare dritta a casa: ho bisogno di decondizionare la mente e lasciar decantare le emozioni. Effettivamente non è stata una passeggiata, ma neanche un’arrampicata impossibile. Mi sono sentita sostenuta da Foti, da Roberto ed Anita, e ciò non  mi sorprende. Ciò che non avevo previsto è di poter essere sostenuta dai detenuti!

 

SGUARDI VERSO UNA LUCE CHE NON E’ SPENTA

di Roberto Bianco

Sabato 15 marzo 2013 ore 6,00

Mi sveglio con un pensiero. Un pensiero della notte, di quelli che nascono forse dalle profondità dell’inconscio.

Apparentemente banale il pensiero è più o meno questo: “quanto siamo ciechi”. O meglio miopi. Spesso non vediamo oltre il nostro naso, abbiamo difficoltà a “sorvolare la nostra vita dall’alto”. La visione della nostra vita, per quanto ci sforziamo, è sempre molto limitata. Possiamo fare sforzi di consapevolezza, accorgerci di “errori” del passato, ma del presente in cui siamo immersi la visione è spesso miope. Subito dopo ho associato a questo pensiero l’immagine del gruppo di carcerati che abbiamo incontrato giovedì 13 marzo al carcere delle Vallette.

La prima immagine è quella di un detenuto che chiamerò Michele e che è arrivato quasi per ultimo e ha preso posto in mezzo perché ormai tutta la piccola sala di “socialità” è occupata. Non so quale sia la pena che deve scontare Michele e nemmeno il reato. Mi ha colpito perché alla richiesta di Foti di comunicare, di dare un nome alle emozioni interviene due volte con foga. Dai suoi interventi apprendiamo che ha tentato due volte il suicidio e che l’aiuto che ha ricevuto e che l’ha salvato è arrivato da Dio.

Non ricordo bene le sue parole, mi è rimasto nella mente soprattutto l’intensità della sua comunicazione. Ripensandoci a distanza di due giorni il mio ricordo è diventato questo: Dio gli dice che può tollerare quello che ha fatto, che è lì in carcere per scontare la sua pena. Può vivere perché accetta la colpa ed accetta di espiare la pena. Paradossalmente la vita può essere vissuta, non è più necessario eliminarla, perché vi è uno sguardo su di essa, un senso: l’espiazione.  Per tornare al pensiero iniziale è come se Michele dicesse che la sua “cecità” non è più tale, il buio e meno buio, c’è una luce.

Quando Foti ha chiesto di comunicare le proprie emozioni ho provato a mettere a fuoco quello che mi aveva maggiormente colpito. Ho ripensato a quello che avevo detto: avevo parlato di sguardi.  Sono stato impressionato dagli sguardi,  volti molto diversi per età (alcuni erano anziani) per etnia (molti stranieri), ma accomunati da occhi bellissimi: occhi intensi, profondi, lucidi .

Lo sguardo è quello che mi ha colpito di più nelle due ore passate nella stanza stipata da più di quaranta detenuti, seduti su sedie sgangherate e su sgabelli provenienti dalle celle.  Mentre Claudio parlava c’era molta attenzione, che non è diminuita anche quando erano poi i detenuti ad intervenire per comunicare le emozioni. Attenzione percepita dal silenzio di chi è impegnato ad ascoltare per capire e trasmessa da sguardi avidi di sapere, di avere una risposta. Sguardo di chi non può guardare lontano perché impedito dalle mura del carcere ed è così costretto a rivolgere lo sguardo dentro, dentro al luogo di espiazione, il carcere, ma soprattutto dentro al proprio luogo di espiazione: dentro di sé.

Forse, immagino ora, per cercare dentro di sé, più o meno consapevolmente, una risposta ad una domanda circa quello che gli ha impedito di fermarsi, di evitare che l’emozione, che il veleno gli sequestrasse la mente e portasse a commettere il reato o i reati.. Ancora un’altra connessione con quel pensiero iniziale: gli sguardi e la cecità..

Tanti gli interventi. Dal fondo un detenuto, giovane, di origine straniera, dice che il racconto di Foti sul bambino cui facevano fare il bagno nell’acqua troppo calda gli ha fatto venire in mente i figli che ha lasciato nel suo paese e che non vede da tanto tempo.

Sulla mia destra vicino alla porta  prende la parola un’altra persona, è vestito in modo diverso dagli altri, ha una sorta di tunica lunga fino ai piedi. Per comunicare le proprie emozioni utilizza e trasforma le metafore che Foti ha utilizzato nella sua relazione e dice di sentirsi come un cavallo senza testa. Un cavallo dunque che cammina che non ha più guida direzione. E poi prosegue dicendo come se la lampadina che illumina il cuore rosso vivo sia più solo una candela, con una luce fioca, sempre più fioca che rischia di spegnersi. Da qui arriva la cecità: dalla difficoltà ad illuminare con la luce la nostra vita. Perché spesso la luce rischia di spegnersi.

Qualche apprensione ad entrare nel carcere, ma timori minori del previsto grazie anche al fatto che Claudio ci aveva preparati all’impatto con la struttura carceraria: al lungo percorso e ai corridoi che sembrano non finire più, ai vari controlli, alle porte di ferro che si aprono e chiudono automaticamente, al rumore sempre molto intenso.

Una cosa non sapevamo: alle cinque è arrivato in corridoio un carrello. Ho guardato l’educatrice che ci aveva accompagnato durante la visita. “Si cena alle diciassette” mi ha detto e, quasi a giustificare, ha aggiunto (un altro particolare) “però si pranza alle 11, undici e trenta”.  Non ho chiesto della colazione, ma ho immaginato sguardi di occhi aperti nel buio in notti che devono essere lunghissime..