
04 Mar IL CONTRASTO ALLA VIOLENZA SUI MINORI: A CHE PUNTO SIAMO?
Continuo a verificare nelle supervisioni e nelle formazioni che faccio in giro per l’Italia una consistente regressione culturale, nelle istituzioni e tra gli operatori, rispetto all’impegno di riconoscimento, di prevenzione e di contrasto del fenomeno della violenza sui minori e dell’abuso sessuale in specifico.
“Se c’è un sospetto di abuso sessuale su un bambino bisogna coinvolgere la famiglia”, sostiene incautamente in un corso di formazione un coordinatore di un servizio sociale. Benissimo! Così informiamo l’eventuale abusante del rischio di essere indagato e lo mettiamo nelle migliori condizioni per disperdere le tracce…
Da alcuni servizi si viene a sapere che da anni non è stata fatta una segnalazione all’autorità giudiziaria. In altri servizi sono in carico situazioni complesse di famiglie multiproblematiche dove il maltrattamento e l’abuso rappresentano una sorta di destino intergenerazionale che il sistema degli operatori tenta di gestire e con cui finisce nei fatti per colludere.
Una particolare ignoranza ed insensibilità si manifesta nei confronti delle sintomatologie post-traumatiche che vanno incontro a diagnosi che stigmatizzano e colpevolizzano il bambino (“deficit di attenzione ed iperattività”, “disturbo oppositivo”, “disturbo bipolare” e via dicendo…), diagnosi che finiscono per impedire l’approfondimento conoscitivo delle cause relazionali o familiari del malessere del piccolo. Diagnosi che contribuiscono ad occultare completamente le situazioni di violenza familiare o extrafamiliare da cui, a ben vedere, provengono i vissuti di sofferenza, impotenza, confusione e rabbia e i conseguenti sintomi di molti bambini.
Le sintomatologie di alcuni minori che hanno subito maltrattamenti gravi vengono non di rado interpretate come espressione di “capriccio” o di “cattiveria”. Eppure di quei maltrattamenti si possono raccogliere tracce significative, purché ci si ponga in una posizione di apertura e di ascolto.
Senza parlare poi dei bambini abusati sessualmente, il cui disagio viene sistematicamente negato e riportato al conflitto coniugale tra genitori, in assenza di un adeguato approfondimento diagnostico e in assenza di uno spazio attento e rispettoso di ascolto.
Bambini che hanno effettuato rivelazioni significative, inevitabilmente sofferte e disorganiche proprio perché pesantemente condizionate dal clima di violenza familiare. Bambini che poi soffrono di incubi in cui compaiono in forme vendicative le figure adulte connesse a quell’abuso che essi stessi hanno cominciato a rivelare. Bambini che infine evidenziano sintomi di enuresi e di encopresi, di ipervigilanza, momenti dissociativi e reiterano nei giochi situazioni di impotenza e di angoscia. Questi stessi bambini non sono messi in situazioni di protezione, né tanto meno messi a proprio agio nelle condizioni emotive di sicurezza e di rassicurazione per poter parlare, per potersi aprire e per poter precisare in forme dettagliate e convincenti l’abuso patito.
Una schiera consistente di educatori, di assistenti sociali, di psicologi e psicoterapeuti non riescono ad aprire la mente all’ipotesi diagnostica della violenza: operatori che sono convinti che la violenza possa circolare solo in maniera assolutamente eccezionale nelle relazioni familiari; operatori che fanno sempre più fatica ad assumere il ruolo di testimone soccorrevole delle donne e dei bambini in difficoltà; operatori che hanno sempre più paura ad avvicinarsi alla sofferenza dei bambini e di tollerare con fiducia l’incertezza e l’ansia dell’ascolto per poter accogliere le comunicazioni del bambino e per trasmettere a quest’ultimo il coraggio, la fiducia e la speranza, necessari affinché possa esprimere fino in fondo la propria verità.
Un esempio tra i tantissimi: in una famiglia dove il padre è alcolizzato e la madre molto trascurante la figlia di 12 anni, che in passato aveva rivelato un abuso che non era stato ritenuto fondato, manifesta crescenti carenze di apprendimento, disordini comportamentali ed una masturbazione compulsiva. Ma tra gli operatori la voce di chi chiede che si crei uno spazio protetto per l’ascolto della bambina non viene ascoltata e si preferisce insistere in un progetto per supportare le prestazioni scolastiche della ragazzina. Invece di dare la possibilità alla ragazza di comunicare il significato soggettivo di una masturbazione, peraltro sempre più frequente e preoccupante, ci si impegna a definire tecniche pedagogiche per il contenimento del sintomo.
La tendenza tra gli operatori all’identificazione adultocentrica con chi nella famiglia svolge il ruolo genitoriale ed autorevole è sempre più diffusa. E parallelamente è sempre più esteso il bisogno dell’operatore di evitare di diagnosticare situazioni di pregiudizio per il minore, per non rischiare di suscitare situazioni conflittuali e per non affrontare responsabilità stressanti di fronte alla magistratura.
Certamente si potrebbero anche mettere in evidenza tendenze positive di crescita culturale sul tema, ma credo sia utile soffermarsi sugli aspetti problematici: la cultura dell’infanzia è tutt’altro che vincente e la crisi economica non favorisce certo l’attenzione ai soggetti più deboli.
Ho parlato di una regressione culturale. Ma, a ben vedere, non c’è mai stata una vera e propria progressione culturale sui temi dell’intervento di contrasto alla violenza sui minori. C’è stata soltanto una stagione negli anni ’90 in cui il tema del maltrattamento e dell’abuso ai danni dei bambini era emerso nell’attenzione dei media ed era stato posto in forme nuove all’ordine del giorno delle agenzie politiche e sociali. È stata una stagione di breve durata perché ben presto i fenomeni dell’adultocentrismo, dell’insensibilità emotiva nei confronti della sofferenza dei soggetti più deboli, i fenomeni della negazione, del diniego e del negazionismo nei confronti della violenza sui minori – fenomeni che siamo chiamati a comprendere, a prevedere e a contrastare – hanno ripreso ad esercitare la loro influenza.