04 Mag Il processo di invecchiamento e la cura di sé
Immaginiamo per un momento di avere le orecchie tappate, gli occhiali appannati, le scarpe strette, immaginiamo di non poter più badare pienamente a noi stessi e di avere al contempo perso molte persone care e punti di riferimento, di vivere in un posto estraneo in mezzo a persone che si conoscono poco o per nulla e di sentire l’avvicinarsi inesorabile della fine dei nostri giorni, senza più capacità progettuale e speranza di cambiamento. E’ la situazione esistenziale che vivono molti anziani, un soggetto sociale che tende ad essere particolarmente trascurato, in quanto non più produttivo, non più “utile” non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista relazionale. .
Molti di noi probabilmente non vedrebbero altra scelta che la “triste rassegnazione”, il ripiegamento su se stessi, l’introversione e la chiusura dal mondo.
Altri, al contrario, potrebbero cadere nel panico e tendere quindi ad agitarsi, a confabulare, a confondersi, a divenire pedanti, petulanti e a sentirsi disorientati.
Altri ancora potrebbero arrabbiarsi, innervosirsi; potrebbero cercare ad ogni costo un colpevole e a diventare scontrosi, intrattabili ed ingestibili.
Forse qualcuno, più fortunato e con maggiori risorse interne, riuscirà a adattarsi alla nuova condizione ed a trovare un certo equilibrio e serenità interiore.
Ho proposto in un ambito formativo questa consegna di identificazione, sollecitando gli operatori impegnati in un percorso formativo sull’empatia ad assumere per alcuni minuti il ruolo dell’anziano “ospite” di una “casa di riposo”. Le resistenze del gruppo sono state consistenti. C’è stato un significativo tentativo di reagire con la banalizzazione o con l’evitamento della consegna.
Nell’elaborazione è emerso il bisogno difensivo del gruppo di accantonare il confronto con la prospettiva dell’invecchiamento e del deterioramento fisico e mentale come prospettiva appartenente a ciascun essere umano.
E’ stato inoltre percepito dal gruppo quanto la persona anziana abbia necessità di sentirsi accolta, accompagnata e sostenuta, anziché abbandonata a se stessa, magari con molti comfort di benessere fisico o peggio, con l’aggravante di forti disagi materiali.
Sarebbe straordinariamente utile proporre agli anziani (per es. nei luoghi di aggregazione o di ricovero) interventi fondati sulle metodologie che mirano a sviluppare l’intelligenza emotiva. Sarebbe particolarmente efficace offrire spazi di ascolto e comunicazione in cui l’anziano possa portare e conseguentemente elaborare la propria rappresentazione di sé, del mondo e dell’esistenza, possa cercare significati alla propria esperienza in senso vitale e non depressivo, possa esprimere le proprie paure, i propri suoi dolori, i vissuti di abbandono, di perdita e di inutilità…, così come dar voce ai propri desideri e bisogni, per non lasciare spegnere la mente. Anche le sofferenze più profonde diventano maggiormente accettabili e tollerabili se la persona che le vive è aiutata a tradurle in parola, a dargli un nome, una collocazione, senza che queste siano banalizzate e generalizzate, ma accolte e capite per quello che sono e/o rappresentano.
Una prospettiva di questo genere è destinata ovviamente a scontrarsi con la tendenza socialmente dominante (a maggior ragione in periodo di crisi) a non investire risorse sulla tenuta e sulla crescita mentale degli anziani. ,
Una prospettiva di questo genere va decisamente contro corrente rispetto ad una cultura diffusa in base alla quale la mente degli anziani irreversibilmente si spegne, senza che ci sia alcuna possibilità di sollecitare risorse neurofisiologiche e psicologiche positive e vitali.
Mi ha colpito molto l’illustrazione, che fa Siegel, di un caso di un paziente di 91 anni, che è riuscito a realizzare straordinarie trasformazioni mentali attraverso un intervento di psicoterapia e di apprendimento di un impegno meditativo definita mindsight (cfr. Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale, Cortina, Milano, 2010).
«Capacità eminentemente umana, la mindsight – scrive Siegel – ci permette di esaminare più da vicino, nel dettaglio e in profondità, i processi, attraverso cui pensiamo, proviamo emozioni e mettiamo in atto specifici comportamenti. Essa ci permette di riplasmare e di ridirezionare la nostra esperienza, così da poter disporre di maggiore libertà di scelta nelle nostre azioni quotidiane, di maggiore potere per creare il nostro futuro».
C’è indubbiamente un rapporto tra la teoria della mindsight, elaborata dallo psicoterapeuta e neurobiologo Siegel e la proposta della mindfullness, rielaborata in Occidente dalla pratica millenaria meditativa e yoga e dallo studio della mente presente nel buddismo. La mindsight si fonda sulla mindfulness e propone una specifica prospettiva di prevenzione, riparazione e cura.
Certamente il soggetto umano è destinato all’invecchiamento (e alla morte), ma occorre ricordare e ricordarci che può affrontare il proprio destino con la fiducia nelle potenzialità della propria mente.