Il PTSD nei pazienti oncologici: malattia oncologica e trauma

Il PTSD nei pazienti oncologici: malattia oncologica e trauma

 

L’oncologia che cura salva il corpo ma non la mente: la necessità di una diagnosi differenziale del ptsd per evitarne la cronicizzazione nei pazienti oncologici.

Lina era una donna di 42 anni a cui, durante un controllo di routine, hanno diagnosticato un carcinoma in stadio avanzato allo stomaco: si rendeva necessario un intervento nelle successive 36 ore. L’intervento chirurgico andò a buon fine, determinando l’asportazione di una consistente parte dello stomaco e un’amnesia retrograda causata dalla mancanza protratta di ossigeno al cervello a seguito del protrarsi eccessivo dell’intervento chirurgico; postumi con cui a poco a poco Lina impara a convivere, insieme ai cicli consistenti di chemioterapia ed ai controlli periodici. Oggi a distanza di quasi 20 anni è fuori pericolo, l’oncologia l’ha salvata, ma è comunque una donna senza vita; o meglio, una vita ce l’ha ma è una vita invasa da sintomi ansioso-depressivi che di recente l’hanno costretta ad assumere antipsicotici. Il suo mondo si limita ormai alle mura domestiche, dove agisce rituali ossessivi legati alla pulizia che le permettono di controllare lo spazio domestico, almeno quello. Ha ridotto sempre di più la sua vita relazionale allontanando amici e conoscenti; la vita familiare è di difficile gestione poiché i familiari provano ad assecondarla ma di fondo non riescono a capirla, e qualsiasi tentativo di spostare la sua attenzione su altro per allontanarla dall’affanno pieno di niente che si è costruita per controllare il suo mondo e sentirsi sicura, è vano anzi addirittura controproducente poiché attiva una paura viscerale che la porta ad agire dinamiche difensive volte a tutelare il mondo che si è costruita per darle sicurezza.

I familiari sono ossessionati da un pensiero: ”Dovrebbe essere felice di essere scampata alla morte e invece è come se fosse morta comunque, e noi insieme a lei!”. Lo psichiatra che l’ha vista di recente le ha somministrato un antipsicotico, farmaco che lei rifiuta. Il suo tono dell’umore è basso con picchi depressivi cui seguono pensieri ossessivi legati alla salute dei familiari. Riposa male e poco per via di incubi ricorrenti. Vive una non vita scandita solo dai rituali ossessivi che ripete ogni giorno, ovunque si trovi, e che attengono la sfera della pulizia e dell’ordine.

Lina era una donna con una struttura di personalità caratterizzata da tratti ansiogeni e ipocondriaci che fino a prima della malattia era riuscita a gestire senza che le compromettessero la vita.

Cosa è successo? La malattia è stata l’evento traumatico che ha sconvolto gli equilibri della sua struttura di personalità, il disturbo post-traumatico acuto si è ormai cronicizzato, e Lina ha tentato da sola di trovare delle modalità ovviamente disfunzionali per gestire lo scompenso traumatico, ossia i rituali che, mancando d’efficacia, la costringono in una sorta di gabbia in cui si consuma la sua solitudine.

Cosa avrebbe potuto fare la clinica ?

Intanto una diagnosi differenziale di disturbo post-traumatico e una presa in carico della paziente attraverso un percorso individuale di elaborazione del trauma, un sostegno alla famiglia per aiutarla a capire cosa stesse succedendo e trovare modalità d’interazione più efficaci che li aiutassero a gestire il peso delle condotte iper-ansiogene che li investono quotidianamente.

La questione dell’omissione di intervento specifico nel disturbo post-traumatico per pazienti oncologici rimanda ad un ambito culturale più vasto, il nostro, in cui manca una prospettiva che promuova l’integrazione ma che attiene piuttosto alla secolare mai superata dicotomia schizofrenogena mente / corpo, medicina / psicologia.

L’errore attiene ad una dimensione culturale che coinvolge l’intera nostra società e dunque ed ha ricadute anche nello specifico settore della sanità: guarire il corpo non ha solo la priorità ma viene ritenuto l’unico intervento possibile o comunque sufficiente. Dimenticando o sottovalutando la dimensione psichica facciamo sì che il “cancro del trauma” estenda le sue metastasi a tutto il funzionamento mentale e il paziente non riesca più a trovare risposte sufficienti e adeguate.

Si ripropone nella pratica sanitaria la distinzione artificiosa tra corpo e psiche e la preminenza del primo sulla seconda, quasi che il corpo attenesse alla dimensione del reale, contrapposta all’effimero psichico.

È tangibile però l’infelicità di Lina e della sua famiglia, per un malessere dilagante a cui nessuno ha mai dato un nome e che cresce nel tempo proprio come una metastasi.

Se c’è una oncologia che cura il corpo, c’è una psicoterapia del trauma che cura la mente, peccato resti non pensabile né pensata nei salotti della sanità mossi forse più dagli interessi delle case farmaceutiche piuttosto che dall’interesse di programmare interventi di cura efficaci.

Talvolta i malati di cancro riescono a controllare i sintomi fisici, ma lo stress, vissuto durante la fase acuta della malattia, ritorna successivamente, insieme alle emozioni non elaborate, cronicizzandosi e generando una sindrome post-traumatica da stress in nulla dissimile rispetto a quella provocata da qualsiasi altro trauma.

I fattori di rischio includono in primis la diagnosi in stadio avanzato, i disturbi ansiosi pregressi.

“È necessario che una volta trattatati oncologicamnete i pazienti vengano monitorati per almeno due anni a livello psicologico” recitano le linee guida del National Cancer Istitute del Bethesda, uno dei massimi centri di ricerca oncologica al mondo. Le raccomandazioni, seppur condivise, sono ben lontane dall’essere applicate in Italia, dove il sistema Sanitario Nazionale non prevede un’assistenza psicologica in tale settore. La diagnosi precoce che costituisce l’unico intervento di prevenzione efficace, rimane privilegio di chi ha i mezzi e le conoscenze per trovare una risposta efficace nel settore privato.

Se si considera che il 35% dei pazienti che ricevono una diagnosi in uno stadio avanzato della malattia oncologica sviluppa il PTSD, il dato più sconcertante è che in Italia prevalga ancora una cultura del corpo che svilisce fino a far svanire la cultura della mente-psiche, e non ultima una cultura che tende sempre più alla analfabetizzazione emotiva; non c’è spazio per le emozioni, soprattutto per quelle negative, che arrivano ad essere ignorate/negate fino ad incistarsi in un cancro mortale che, se non interveniamo in tempo, finirà con l’annientare del tutto la possibilità di resilienza che che potrebbe invece essere rafforzata qualora le emozioni negative trovassero lo spazio per essere pensate e condivise. Se continueremo e rendere invisibili le risorse insite nella persona, anche quella traumatizzato, perderemo la capacità di mentalizzare che sia possibile una via d’uscita, una ristrutturazione, una guarigione possibile, il che significa tagliare le ali alla speranza nell’energia vitale che prova a sopravvivere comunque e nonostante il trauma. Importante in tal caso sarebbe almeno assumersi la responsabilità d’averla uccisa la vita, come quella di Lina.