IN / GIUSTIZIE PRIVATE , IN / GIUSTIZIE PUBBLICHE di Alessandro Rumiano

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Quando Zadhullah Boota ha aperto la porta di casa, non ha immediatamente riconosciuto la ragazzina che gli stava di fronte. Erano passati sei anni da quando l’aveva conosciuta ed il copro di una bambina di 8 anni è diverso da quello di una quattordicenne. L’uomo, che lo scorso Novembre aveva 56 anni ed era residente a Bradford, cittadina inglese nello Yorkshire, era stato processato nel 2010 con l’accusa di abuso sessuale a danno di una bambina di otto anni ed in seguito alla sentenza finale era stato costretto a scontare una pena pari a qualche mese di servizio sociale.

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Una pena che, già ad un primo impatto, suona come tremendamente inadeguata ed irrisoria, se proporzionata alla gravità del reato commesso.

«Desideri qualcosa?», l’uomo ha chiesto alla ragazza che chiamiamo Joan (i giornali non hanno comunicato le generalità per motivi legali). « Sì » ha risposto lei. « Sono qui per ucciderti ». E subito dopo Joan lo ha pugnalato al petto, non distante dal cuore, agendo in maniera incontrollata la rabbia e rovesciando l’impotenza e la frustrazione che si era certamente accumulata in lei nel corso degli anni. Perché se già per noi sembra assurdo che un uomo accusato e condannato di pedofilia possa tornare a condurre una normalissima vita dopo qualche mese, possiamo solo immaginare quanto sia traumatico agli occhi di una bambina di appena 8 anni, vittima non solo di indicibili sofferenze, ma anche del puro negazionismo di un tribunale che ha ritenuto più opportuno non crederle a piena e costringerla di conseguenza ad un altro dolore e ad un’altra vittimizzazione.

Subito dopo aver attentato alla vita del suo abusante, la ragazzina si è recata nella stazione di polizia più vicina per costituirsi e autodenunciare ciò che aveva fatto, tentando di spiegarne i motivi. Gli anni successivi a quello della sentenza, come lei stessa ha raccontato, sono stati segnati da una schiacciante paura e da un logorante senso di minaccia per la possibilità di essere nuovamente abusata dall’uomo tornato presto in libertà. Aggiungiamo per comprendere il suo vissuto l’amarezza e la delusione di una giustizia che dovrebbe tutelare i bambini, ma che di fatto protegge gli adulti.

Ed è un problema, questo, che purtroppo sembra dilagare sempre più nel nostro tempo. Non è necessario spingersi oltre i confini per averne una drammatica testimonianza. Ci risuona fin troppo recente il caso di Fortuna, per esempio, ennesima vittima di una cecità e di una sordità che non è solo degli ambienti degradati, ma anche delle istituzioni che dimenticano nei fatti il problema della prevenzione e del contrasto dell’abuso sessuale sui bambini. Per concludere con le vicende accadute oltremanica, l’uomo è riuscito a salvarsi grazie al tempestivo intervento dei paramedici, e la ragazzina è stata chiaramente portata in tribunale con l’accusa di tentato omicidio. Tuttavia, dopo averla lasciata parlare ed aver sentito l’intera storia, il giudice Jonathan Dunham fa qualcosa che lascia tutti spiazzati: la assolve dalle accuse, sentenziando una ‘legittima difesa’, seppur in differita. Promette inoltre alla ragazza di pagare tutte le spese legali da lei sostenute sino a quel momento e, nel caso in cui qualcuno le avesse ancora fatto causa, di pagare anche le spese legali future.

Qualcuno potrebbe fraintendere l’atteggiamento del giudice come invito indiretto alla giustizia privata. Certamente Il farsi giustizia da sé non è mai una prospettiva da incoraggiare. Ma la vicenda di Joan nasce da un’evidente carenza della giustizia pubblica.

E personalmente non posso fare a meno di provare un po’ di ammirazione nei confronti di chi, mostrando un’umanità ormai in disuso, è riuscito a far prevalere la comprensione giusta dei diritti dei bambini sull’applicazione rigida della legge, riparando in questa maniera la piccola Joan del torto subito sia dall’abusante che dalla precedente sentenza del Tribunale.