LA SUPERVISIONE SU BAMBINI VITTIME DI MALTRATTAMENTIO E SULLE LORO FAMIGLIE. CHE COS’E’ E PERCHE’ DEVE TENER CONTO DELLE EMOZIONI DEGLI OPERATORI?

LA SUPERVISIONE SU BAMBINI VITTIME DI MALTRATTAMENTIO E SULLE LORO FAMIGLIE. CHE COS’E’ E PERCHE’ DEVE TENER CONTO DELLE EMOZIONI DEGLI OPERATORI?

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1. FINALITA’ DELLA SUPERVISIONE

Il compito richiesto agli operatori che lavorano con casi di maltrattamento, abuso, trascuratezza ed abbandono risulta particolarmente difficile per la necessità di interagire con soggetti portatori di grande sofferenza, con tratti personologici complessi e non facilmente definibili, provenienti da reti di relazioni ed esperienze non di rado conflittuali o traumatiche, da storie famigliari assai diverse tra di loro, rispetto alle quali l’utilizzo di schemi stereotipati si rivela del tutto inutile e controproducente: ogni soggetto è caratterizzato da una problematica specifica con la quale occorre entrare in relazione.

Un’altra difficoltà da tenere presente è data dalla messa in gioco – nell’interazione con il minore e con i suoi familiari – delle componenti emotive e soggettive dell’operatore (comprese le fragilità e i conflitti personali), componenti, che hanno bisogno di essere riconosciute e rielaborate per non condizionare negativamente l’intervento e il trattamento del caso.

2. MODALITA’ DI CONDUZIONE

Il piccolo gruppo garantisce lo scambio delle esperienze, la costruzione di un linguaggio comune e di una possibilità di condividere le scelte circa gli interventi da attuare nella scuola. L’ambito del piccolo gruppo può favorire tra i partecipanti un clima di comprensione che, a sua volta, consente il superamento di modelli ideali, formalistici e perfezionistici del proprio ruolo.

Le resistenze psicologiche inconsapevoli possono ostacolare la comunicazione all’interno del gruppo, impedendo un costruttivo confronto professionale e rendendo difficili i rapporti. La conduzione mira in primo luogo a cogliere queste difficoltà, decodificandole al fine di consentire al gruppo di essere un luogo di incontro, capace di far avvicinare gli educatori tra loro. La conduzione può favorire il superamento di modalità aggressive o superficiali, di meccanismi di rifiuto e di difesa che impediscono i processi di appartenenza al gruppo e, di conseguenza, l’identificazione di strategie di intervento puntate su obiettivi comuni.

La funzione di incontro si collega a quella di contenimento delle ansie non elaborate, dei sentimenti inespressi, delle difficoltà non comprese del proprio impegnativo mestiere di operatore. Il contenimento permette la riflessione che consente a sua volta di ampliare la capacità di ascolto, di dialogo e di rispetto dell’altro, di stabilire connessioni tra il proprio atteggiamento e la reazione dell’altro, di percepire i conflitti interpersonali e i bisogni emotivi dei soggetti con cui ci si trova ad operare.

Il percorso mira a sostenere e a responsabilizzare l’operatore, aiutandolo a comprendere meglio il rapporto tra la propria soggettività e la propria professionalità. L’ incontro tra componenti emotive e componenti e cognitive da una parte e la rielaborazione dei vissuti connessi all’attività professionale dall’altra, possono consentire d’inquadrare la situazione operativa in maniera meno confusa e più realistica.

3. LA SINERGIA DELLA COMPETENZA PSICOLOGICA E SOCIALE NELLA RISPOSTA ALLA SOFFERENZA DEI BAMBINI

La supervisione cercherà di sviluppare l’attenzione cognitiva e la sensibilità emotiva degli operatori nella prospettiva di un intervento psicoterapeutico e sociale integrato, finalizzato alla comprensione, all’elaborazione al trattamento delle esperienze traumatiche o avversive, che hanno comunque danneggiato il potenziale evolutivo dei bambini.

L’impegno sociale e terapeutico nei confronti dei soggetti che hanno subito un trauma deve risultare sintonico ad un atteggiamento che non può prescindere da due principi: 1) le vittime non sono colpevoli delle situazioni e dei fatti che li hanno traumatizzati, per quanto abbiano interesse ad assumersi la responsabilità mentale delle reazioni che possono aver seguito l’esperienza traumatica e che possono averla eventualmente preceduta; un atteggiamento di colpevolizzazione nei confronti dei soggetti traumatizzati non può che configurare una “seconda violenza” (Symonds, 1982); 2) se le vittime non vengono aiutate ad elaborare i ricordi dell’esperienza traumatica vissuta potranno sviluppare – secondo direzioni non determinabili in maniera meccanica – sintomi di intrusione e ripetizione, sintomi dissociativi, comportamenti di evitamento, forme di iperreattività e di comportamento aggressivo verso il Sé e verso gli altri e potranno diventare – secondo linee che risentiranno di complesse e numerose variabili – persone angosciate o depresse, genitori negligenti o violenti e/o persone che abusano di alcool e droghe come strumento per combattere tensioni emotive insopportabili. Si tratta di due principi che stentano ancora ad essere interiorizzati socialmente e a produrre coerenti comportamenti.

Prevale nella comunità sociale e nelle sue istituzioni un atteggiamento di disidentificazione o addirittura di colpevolizzazione nei confronti delle persone colpite da trauma o da esperienze avversive.

Il modello della supervisione proposta mira a sviluppare in modo sinergico competenza psicologica e competenza sociale. Basti pensare che un aspetto che caratterizza l’esperienza sfavorevole e a maggior ragione il trauma è dato dunque dal silenzio che circonda le suddette esperienze, dalla solitudine comunicativa a cui è costretto chi ne porta il peso. Un isolamento e un silenzio che, se pure possono in parte essere ricondotti ai peculiari vissuti – di vergogna, di colpa, di stigmatizzazione – inculcati nel bambino dalla vicenda avversiva o traumatica, vanno però al contempo ricondotti alla responsabilità di un contesto ambientale, familiare e sociale troppo spesso indisponibile all’ascolto del disagio e della sofferenza, soprattutto dei più piccoli.

Se tutto questo è vero, allora non si può ritenere che la cura del bambino che ha patito un’esperienza avversiva sia una partita che si gioca unicamente nella mente e nel cuore di chi quell’esperienze ha subito, ma deve al contrario vedere impegnati, a diverso titolo e a diversi livelli anche l’ambiente circostante e, in ultima analisi, la società civile tutta che, se non può certo annullare la situazione sfavorevole o traumatica rendendolo non accaduto, può però, e deve, restituire ascolto, riconoscimento e risarcimento alla sofferenza patita.

4. LA SUPERVISIONE DELL’INTERVENTO A TUTELA DEI MINORI VITTIME DI ESPERIENZE SFAVOREVOLI O TRAUMATICHE

Accanto alle descrizioni classiche delle tipologie della violenza all’infanzia (violenza fisica, psicologica, sessuale, grave trascuratezza e ipercuria), emergono nuovi strumenti interpretativi per inquadrare il fenomeno (si parla di ESI, esperienze sfavorevoli infantili che pur non configurando forme eclatanti di violenza possono danneggiare gravemente il potenziale evolutivo dei minori: lutti precoci, marcata noncuranza emotiva, violenza assistita, crescita in ambienti familiari caratterizzati da litigi marcati e continuativi tra i genitori o caratterizzati dalla presenza disturbante di familiari tossicodipendenti, malati mentali, alcolisti, prostitute, detenuti ecc..). In altri termini l’attenzione degli studiosi si sposta da categorie che individuano specifici comportamenti genitoriali violenti a classificazioni che descrivono atteggiamenti che distorcono in modo trasversale e continuativo l’intera relazione interpersonale genitori-figli e le potenzialità evolutive di tipo positivo del bambino.

Si tratta allora – anche attraverso il lavoro della supervisione – di favorire vuoi la cornice istituzionale e ambientale , vuoi la cornice familiare o relazionale, vuoi infine la cornice terapeutica per mettere in sicurezza i soggetti colpiti da traumi o da situazioni avversive, soprattutto se minori, e di aiutarli a comprendere il condizionamento ripetitivo ed ansiogeno delle situazioni e degli eventi del passato.

Nel nostro modello di supervisione è fondamentale l’approccio psicodinamico alle problematiche dell’individuo colpito da esperienze avversive o traumatiche perché soltanto una considerazione della loro soggettività in senso globale può tentare di comprendere come la situazione gravemente stressante patita ha interagito con la personalità del paziente e con la sua particolare vicenda umana e psicologica e può tentare nel contempo di ricostruire – all’interno di una relazione interpersonale attenta ed empatica nei confronti delle specifiche esigenze del paziente stesso quei legami di fiducia, di apertura e di intimità, inevitabilmente danneggiati dall’esperienza traumatica stessa.

In questa prospettiva l’attività di supervisione intende essere uno strumento di sollecitazione e di aiuto, di sostegno e di elaborazione emotiva e cognitiva. Il riferimento ai principi e alle tecniche dell’intelligenza emotiva come prospettiva teorica e metodologica del lavoro di supervisione potrà consentire di favorire la comunicazione all’interno dell’équipe, di far crescere il rispetto e l’elaborazione dei differenti punti di vista valutativi ed emotivi, di sostenere il clima di collaborazione operativa e di comprensione reciproca al di là dei diversi vertici di osservazione istituzionali e soggettivi sulle casistiche esaminate

Dott. Claudio Foti