
16 Mar L’ASCOLTO DEL MINORE NEL PROCESSO PENALE. IL BAMBINO ABUSATO: VITTIMA DUE VOLTE di Piero FORNO
Al convegno “L’educazione sessuale che non c’è, l’abuso sessuale che c’è e il mancato ascolto del bambino” organizzato dal Centro Studi Hansel e Gretel e da Rompere il silenzio, parteciperà fra gli altri Piero Forno, ex procuratore aggiunto “fasce deboli” Tribunale Ordinario di Milano e Tribunale Ordinario Torino. Pubblichiamo qui una parte di una sua relazione contenuta integralmente nel libro curato da Claudio Foti “L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto”, Angeli, 2003. Il tema è di particolare attualità: la vittimizzazione secondaria a cui i bambini, vittime di violenza, rischiano di andare incontro quando entrano nel contesto giudiziario. Ecco il testo.
(…)
IL “SETTING GIUDIZIARIO”
In definitiva occorre aver ben chiaro quali siano le peculiarità del “setting giudiziario” che lo differenziano nettamente sia da quello diagnostico terapeutico che da quello peritale. Solo in questo modo sarà possibile, uscendo da facili ed unilaterali irenismi, domandarsi concretamente se ed in quale misura sia possibile evitare al minore il rischio di vittimizzazione secondaria.
LA SUGGESTIONE POSITIVA
Il punto che caratterizza il setting giudiziario e lo differenzia dagli altri è essenzialmente il divieto di domande “che possono nuocere alla sincerità delle risposte”. (art. 499 2° comma c.p.p.). Questo principio se applicato con rigore ai minorenni e specialmente a quelli prepuberi, non vieta solo le domande trabocchetto che possono indurre ad esempio il testimone a ritenere esistente un falso presupposto ma vieta altresì ogni tipo di domanda suggestiva, domande che rispetto ai soggetti adulti sono invece consentite in sede di controesame. Quello delle domande suggestive è un tema di estrema delicatezza, dal punto di vista processuale, dal momento che è sufficiente una sola domanda suggestiva, specialmente nella fase iniziale delle rilevazioni, per comprometterle in modo definitivo.
In ambito clinico invece non può negarsi che talora una certa suggestività sia consentita ed addirittura opportuna; essa entra nella fase diagnostica allorché vengono esplorate ipotesi esplicative di un determinato disturbo.
È il classico caso del medico effettuando la palpazione dell’addome del paziente domanda: fa male qua? Trasponendo ciò in ambito psicologico, lo psicodiagnosta che individua una situazione di sofferenza del paziente, potrebbe essere indotto a fare domande del tipo “Noto che quando parli dello zio, ti rattristi. È successo qualcosa di brutto con lui” ovvero a far presente alla piccola paziente (bambina che giocando con un bambolotto maschile rappresentante il padre, cerca di distruggerlo) che la sua comunicazione non verbale è evocativa di sentimenti di avversione nei confronti di quella persona.
La situazione limite è rappresentata dai casi in cui è addirittura la terapia a risvegliare ricordi offuscati (le cd. “recovered memories”) e rende addirittura possibile il ricordo dell’abuso subito molto tempo prima. Per quanto casi del genere non siano, per fortuna, facilmente ipotizzabile nel sistema penale italiano a causa dei termini di prescrizione relativamente brevi, è di tutta evidenza che un massiccio intervento sui processi mnestici del paziente non possa non influire negativamente sulla sua attendibilità in sede giudiziaria.
Il giudice penale deve sapere che ogni diagnosi contiene, aspetti terapeutici e che, viceversa, ogni trattamento terapeutico consente di validare o meno l’ipotesi diagnostica iniziale (la cd. diagnosi ex iuvantibus).
In entrambi i casi il sanitario, psicologo o psichiatra che egli sia, potrebbe essere indotto ad interventi che, se corretti sul piano clinico, appaiono quanto meno discutibili su quello giudiziario, come ad esempio nel caso in cui lo specialista aiuta il minore a capire il significato di “imbroglio” di determinate azioni da lui subite ovvero gli spiega che non deve sentirsi in colpa per quello che gli è successo, in tal modo assumendo un atteggiamento non neutrale rispetto alla verità storica dei fatti e alla loro interpretazione.
Non si vuole, con ciò stigmatizzare il comportamento di tali professionisti, assolutamente lecito e talora doveroso sul piano della deontologia professionale, ma semplicemente rammentare le possibili conseguenze di determinati interventi sul paziente.
In linea puramente indicativa, esiste una profonda differenza fra la prima rivelazione dell’abuso, in sede diagnostico-terapeutica e quanto può accadere in una fase successiva allorché, durante la terapia, il minore riferisce nuovi particolari di quanto subito.
Quando la prima persona che riceve la confidenza è lo psicologo, questi, che si trova ad essere un testimone, per quanto indiretto, di primissimo piano è opportuno che si astenga, nei limiti del possibile, da ogni domanda che possa compromettere la genuinità del racconto.
Ecco un esempio di un caso molto difficile affrontato, con grande professionalità, da una psicomotricista che aveva in terapia una bambina di 9 anni, affetta da un ritardo psichico di grado medio, che improvvisamente le ha rivelato l’abuso da parte dello zio. Ecco la sequenza: in una prima fase V. rivela che lo zio è uno “sporcaccione” nel senso che è disordinato e non pulisce: “sporca, è disordinato, non mi lascia stare…”. Nello stesso periodo parla di un segreto che lei custodiva e che non poteva rivelare in paese.
In seguito V. ritorna sul tema della sporcizia: «lo zio sporca anche in taverna… io vado giù in taverna a scrivere e lo zio non mi lascia in pace, viene add….», e si blocca sul finale della parole. La professionista si limita a completare la frase e a specificarla, come osserva il Tribunale, senza suggerire nulla: «ti viene addosso e ti tocca?». A questo punto la bambina del tutto spontaneamente annuisce indicando le zone in cui lo zio la toccava «qui, qui e qui» indicando il petto, il ventre ed i genitali.
Osserva ancora la sentenza: «È del tutto evidente che la generica introduzione del concetto di toccare non soltanto è un’ovvia conseguenza del venire addosso ma, così come introdotto, non è affatto suggestivo in relazione a comportamenti sessualizzati giacché si tratta di un termine molto generico che non viene accompagnato da alcuna connotazione particolare da parte di chi ha posto la domanda.
In ogni caso la risposta della bambina non è semplicemente adesiva ma introduce del tutto spontaneamente anche specifici toccamenti ai genitali che rappresentano un autonomo apporto cognitivo, evidentemente aderente al vissuto di V…».
Nella stessa sentenza il Tribunale rileva anche la grande difficoltà affrontata dalla specialista: «In tema di minori ed in particolare nel caso di V. che mentalmente dimostra minor sviluppo della sua età anagrafica, va inoltre precisato che è necessario “guidare” il racconto quantomeno con domande introduttive e poi specificative, considerate le limitate capacità narrative del minore ed in particolare di V., ritenuta da tutti i consulenti come una bambina decisamente ‘povera’ di strumenti culturali».
LA SUGGESTIONE NEGATIVA
Spesso si ha la tendenza, parlando di suggestione, di prendere in considerazione soltanto quella positiva, quella cioè che induce risposte; esiste anche la suggestione negativa che induce il minore a non raccontare ed è più difficile da individuare, come tutto ciò che ha a che fare con i comportamenti omissivi.
In vari dibattimenti i difensori degli imputati hanno obbiettato all’ausiliario del giudice, incaricato dell’esame di minori in età prescolare, che l’uso di un linguaggio affettivamente “caldo”, con espressioni quali “gioia, tesoro, amore”, ovvero gesti affettuosi quali lo stringere la mano del minore nei momenti delicati del suo racconto, potrebbe alterare i risultati dell’audizione creando una sorta di complicità fra l’adulto ed il minore. È stato addirittura sostenuto che l’empatia è deontologicamente scorretta e che occorre affrontare il minore in modo rude ricordandogli eventualmente che le sue dichiarazioni possono far finire in prigione qualcuno. Questo è il modo sicuro per ottenere il silenzio del minore, il che se è desiderabile da parte dell’indagato, se colpevole, e da parte del suo difensore, se ben pagato, non può certo rientrare fra i metodi del giudice che deve favorire in tutti i modi la comunicazione empatica con il minore.
Vi sono elementi di suggestione negativa anche in taluni interventi da parte del giudice, spesso fatti allo scopo di aiutare il minore a vincere imbarazzi e resistenze.
Nel caso di una minore di 7 anni che aveva dettagliatamente raccontato alla Polizia abusi sessuali di ogni tipo da parte del padre e del fratellastro, in sede di audizione da parte del giudice questi dopo circa un’ora di estenuante tira-molla era riuscito a sapere che costoro la picchiavano, che il padre «faceva l’amore, faceva delle cose da grandi…», e che tale affermazione significava anche che i due congiunti la “baciavano in bocca”. A questo punto, nel momento in cui cerca di sapere in che cosa altro consista il “far l’amore” il giudice interviene nel modo seguente:
G.: «Raccontaci quella parte che ti faceva papà. Se te la faceva eh, perché se non te la faceva mi dici “no, no, un momento…” capito? Cioè hai capito? non è che devi dire che te le faceva se non te le faceva o il contrario, hai capito? devi dire le cose come stavano, la verità».
In altre parole il giudice fa intendere alla minore che non le crede; le conseguenze dell’intervento sono immediate. La minore dichiara che il padre la baciava “come tutte le altre persone”, che non c’erano altre forme di “fare l’amore” e che le stesse considerazioni valevano per il fratello che faceva le stesse cose del papà.
A questo punto il giudice aggrava ulteriormente la situazione:
G.: «Cioè ti baciava sulle guance o sulla bocca». S.: «Sì».
G.: «E son cose brutte queste? Tu hai detto prima che erano cose brutte, non mi sembra che siano cose brutte. La mia bambina quando le do i baci è contenta, almeno credo eh, magari non è contenta; io credo che sia contenta. Non è che mi dice “papà, ma che cose brutte mi fai” no?».
S.: «Sì». G.: «Invece tu hai detto che c’erano delle cose brutte non dei baci, i baci sono una cosa bella».
Dopo che la psicologa tenta di indorare la pillola, chiedendo alla bambina se c’è qualcosa che non si sente di dire al giudice, questi si allontana dalla stanza lasciando alla psicologa la conduzione di un tanto inutile quanto tormentoso esame, ormai radicalmente compromesso nelle sue possibilità di riuscita in quanto la minore è in grado di capire che:
1) quei baci di cui sta parlando non sono una cosa brutta perché li pratica anche chi la interroga;
2) se fossero stata una cosa brutta lei lo avrebbe detto immediatamente al suo papà, come fanno tutte le bambine abusate;
3) quindi: il giudice non le crede e se ne va via visibilmente insoddisfatto.
Un altro elemento di suggestione negativa è costituito dalla durata dell’audizione. In ambiente anglosassone il giudice che conduce l’audizione, nella fase della preparazione dei quesiti da sottoporre all’esperto impone un timing che le parti sono tenute a rispettare rigorosamente.
Nell’infelice caso già menzionato al punto precedente, anche la durata dell’audizione è abnorme, ben 3 ore e 15 minuti durante i quali succede di tutto, la bambina piange, si distrae, viene redarguita (“perché non parli?”), si chiude nel silenzio, si tormenta la bocca, si contraddice vistosamente, (“si.. no… non lo so…”) si distrae ancora, si mette a cantare, smette di rispondere alle domande, appare sfinita, si spazientisce (“ancora domande?!”).
Anche la scelta delle persone che partecipano all’audizione può determinare fenomeni di suggestione negativa. Caso tipico è la presenza del giudice di sesso maschile all’audizione delle bambine. Non vi è dubbio che è del tutto lecito, per non dire doveroso, che se la bambina chiede che il giudice esca dalla stanza, possa venire accontentata, in modo da eliminare o attenuare sentimenti fortemente ostativi alla rivelazione. Altri elementi che possono ostacolare un rapporto corretto è l’eccesso di formalismo (chiamare il giudice con il cognome preceduto da “dottore”; esigere il “lei” da bambini che danno del “tu” a tutti ecc.).
Chi esamina il bambino deve sapersi mettere al suo livello in tutti i sensi; in Germania la polizia è dotata di appositi locali dotati di impianto televisivo a circuito chiuso; il minore viene collocato in una posizione sopraelevata rispetto all’adulto che lo interroga.
Quando si tratta di bambini molto piccoli viene di solito chiesta ed ammessa, ai sensi dell’art. 609 decies c.p.p., la presenza dell’educatore, che si occupa di loro e che viene peraltro invitato a mantenere la più assoluta neutralità.
Vi è stato tuttavia un caso, altamente emblematico, di una bambina di tre anni che dopo aver alzato un muro infrangibile di fronte a tutti i tentativi fatti dal giudice e dalla psicologa di sapere che cosa fosse successo, ha iniziato il suo drammatico racconto a partire dal momento in cui le parti hanno deciso di lasciarla sola con l’educatrice.
In un altro caso invece la minore ha opposto una resistenza invincibile alla psicologa mentre ha raccontato i fatti subiti allorché è rimasta con il giudice (di sesso femminile) che le ha prospettato, con serena fermezza, la necessità che dicesse chiaramente se le fosse successo qualcosa, anziché continuare a tormentare disperatamente, come aveva fatto fino a quel momento, un bambolotto di sesso maschile.
Il minore deve essere informato dei motivi per cui viene sentito, con un linguaggio accessibile alla sua età e devono essere soddisfatte le sue legittime curiosità in ordine al contesto in cui viene sentito. Gli si darà quindi la possibilità di conoscere prima la psicologa ausiliaria del giudice e di vedere la stanza con vetro a specchio unidirezionale in cui verrà interrogato. Circa l’identità delle persone che stanno dietro il vetro non sembra necessario che il minore la debba conoscere, soprattutto con riferimento a quelle di cui ha paura (innanzitutto l’imputato); non è tuttavia opportuno mentire su tale circostanza se il minore formula esplicitamente la domanda.
Chi ha spesso trascorso la sua vita circondato da ogni genere di imbroglio non può essere imbrogliato anche da coloro che lo devono tutelare.
Sempre in tema di imbroglio è stato talora tentato, in sede di esame del minore, di sottoporgli, in forma di domande, quella che era la versione dei fatti dell’imputato, quando questi ammetteva determinati episodi negandone peraltro la valenza sessuale.
Ad esempio in dibattimento molto combattuto (l’imputato ha poi confessato durante il giudizio d’appello) la psicologa aveva introdotto il tema dei giochi che la bambina faceva con il padre, con domande del tipo «magari il papà quando faceva il gioco della mosca cercava di metterti in bocca il cucchiaio della pappa» oppure «magari il papà giocava al cagnolino cercando di prenderti mentre tu scappavi».
Si tratta di domande altamente suggestive e come tali comunque inammissibili che mettevano a dura prova la resistenza della minore di fronte a dei tentativi espliciti di giustificare, ai suoi occhi, il comportamento paterno e, attraverso tale metodo, di sottoporla ad un vero e proprio confronto, per interposta persona, con il genitore.
Le domande più difficili, anche se di per sé non inammissibili, sono quelle che esplorano il mondo interno del minore anziché i fatti oggetto del processo. Ad esempio un minore può raccontare con relativa facilità abusi di ogni genere ed esprimere anche sentimenti di disapprovazione per tali fatti, ma farà molta difficoltà a rispondere a domande del tipo: «Come mai allora tu hai scritto al papà un biglietto di auguri in cui dici di volergli bene?», «Come mai, visto che avevi confidenza con la mamma, non le hai raccontato quello che ti capitava?», «Hai mai detto al papà che quello che lui ti faceva a te piaceva?».
Non deve dunque stupire che le risposte del bambino siano molto lacunose, che possano tendere a negare la verità dei fatti sottopostigli («non ho scritto io il biglietto») ovvero a darne spiegazioni banali tendenti ad evitare di affrontare gli aspetti più dolorosi della vicenda e cioè l’ambivalenza nei confronti del padre, il senso di impotenza di fronte all’abuso, il sentirsi tradito da una madre non tutelante, la vergogna per aver provato sensazioni di piacere.
Talora la vergogna è tanto grande che il bambino non riesce a raccontare i fatti con le parole e chiede di poter scrivere o, quando è molto piccolo, di disegnare ciò che gli è capitato. Anche questa esigenza va accolta, salvo, se necessario, commentare quanto scritto o disegnato.
È stato talora obbiettato da parte dei difensori che il ricorso alla scrittura da parte del minore violi il principio di oralità del dibattimento penale; ciò può essere superato attraverso la lettura di quanto successivamente scritto a nulla rilevando il fatto che essa venga fatta direttamente dal minore ovvero da chi conduce l’audizione.
LA VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA
Alla luce di quanto sopra esposto si possono dunque fare alcune considerazioni conclusive sulla vittimizzazione secondaria, come possibile conseguenza del processo penale. Questo pericolo non può essere negato né taciuto, è insito in ogni processo, e può dipendere sia dal modo in cui viene condotto il processo sia dalle conclusioni.
A questo ultimo proposito è indubbio che la forma più palese e più grave di vittimizzazione secondaria di chi ha subito un abuso è quella di non essere creduta: oltre al danno le beffe. Tale vittimizzazione, come nel caso della Maria dei primi del ‘900, costituisce l’obbiettivo primario di ogni imputato, quando effettivamente colpevole; del resto non ci si può stupire che chi per lunghi anni infierito su vittime innocenti con vessazioni di ogni genere possa modificare il suo atteggiamento quando queste si ribellano.
Perché sia possibile è tuttavia necessario il fraintendimento da parte del giudice e questo dipende essenzialmente da un lato dalla risonanza culturale del fenomeno, che permette alla società di prenderne coscienza e di superare le ataviche rimozioni, dall’altro dalla preparazione specialistica del giudice che gli impedisce di cadere nelle trappole che gli vengono continuamente tese e che possono portarlo a dei veri e propri fraintendimenti. Le caratteristiche confusive dell’abuso, ben note in letteratura, possono avere come ultima vittima, tutti coloro che se ne occupano, ad incominciare dai giudici.
Il secondo aspetto della vittimizzazione secondaria è invece legato al concreto modo di condurre il processo penale, indipendentemente dalle sue conclusioni.
Anche in questo caso i rischi sono molti ma sono tutti evitabili, sol che il magistrato sappia perseguire il fine primario del processo che è l’accertamento della verità, senza mortificare né il diritto di tutela della vittima né quello di difesa dell’imputato.