L’educazione come pratica del rispetto delle emozioni

L’educazione come pratica del rispetto delle emozioni


di Claudio Bosetto, Claudio Foti
[tratto da  In memoria di Alice Miller. Educazione e psicoterapia nel rispetto delle emozioni )

 

La consapevolezza dell’esistenza e della diffusione del maltrattamento ai danni dei bambini e del suo stretto rapporto con l’educazione è un’acquisizione recente nella storia dell’umanità. Da sempre l’infanzia è stata raccontata dagli adulti in base agli schemi interpretativi che risultavano dominanti nei diversi contesti storici e culturali, ma nelle varie rappresentazioni sociali dell’infanzia, che si sono succedute, non c’è mai stata molta attenzione per le sofferenze e le umiliazioni vissute dai bambini. La società non è mai stata particolarmente sensibile alle ingiustizie, alle manipolazioni, alle violenze patite dai minori.

Lo sviluppo di una cultura dell’infanzia ha iniziato a diffondersi nei paesi industrializzati molto recentemente rispetto alla storia della cosiddetta civiltà e solo dopo il 1900 è osservabile l’avvio di una lenta e sempre conflittualizzata diffusione a livello nazionale ed internazionale di iniziative rivolte alla difesa dei diritti dei bambini, alla protezione dell’infanzia e al problema sommerso dei maltrattamenti e delle negligenze verso i minori.

Con enormi difficoltà e resistenze si è fatta strada nella comunità scientifica la considerazione del fenomeno del maltrattamento, delle sue conseguenze sullo sviluppo della persona e delle sue ripercussioni sull’intera comunità sociale. Basti pensare che ci sono voluti decenni di sviluppo della medicina pediatrica prima che si pervenisse nel 1962 alla diagnosi della “sindrome del bambino battuto”, che si propone di diagnosticare la tipologia di maltrattamento all’infanzia, a ben vedere più eclatante e facile da riconoscere, rispetto ad altre forme di violenza più sfuggenti quali l’abuso sessuale e la violenza psicologica.

Contemporaneamente e parallelamente all’avvio di una nuova percezione del maltrattamento infantile anche i modelli educativi tradizionali sono stati messi in discussione: il vasto movimento politico e sociale che identifichiamo con il 1968 ha scosso alcune fondamenta dell’ordine sociale ed in particolare la scuola e la famiglia. Educatori e pedagogisti hanno dovuto confrontarsi con i sostenitori dell’educazione libertaria ed antiautoritaria e più in generale con un vasto movimento di critica nei confronti della pedagogia tradizionale, dai pensatori ed attivisti cattolici ai teorici della descolarizzazione.

La critica all’autoritarismo e ad ogni forma di repressione, sia sociale che soggettiva, se pure coinvolgeva la rappresentazione dell’infanzia non ha sempre favorito il nascere di una autentica sensibilità nei confronti dei bambini e la nuova pedagogia antiautoritaria spesso si è rivelata scarsamente rispettosa dei bisogni emotivi dei più piccoli: in questo senso la critica di Alice Miller ad una pretesa “pedagogia bianca”, capace di contrapporsi alla “pedagogia nera” ed antiautoritaria risulta pienamente giustificata.

Addirittura, dietro il paravento ideologico della “liberazione” dell’infanzia, sono nati ad esempio i propugnatori della “liberazione sessuale dei bambini e delle bambine”, associazioni come la North American Man/Boy Love Association (NAMBLA) che si è contrapposta alle leggi che vietano rapporti sessuali tra uomini adulti e minori sostenendo “l’adozione di leggi che tutelino i minori da esperienze sessuali imposte e che, allo stesso tempo, li lascino liberi di stabilire il contenuto delle proprie esperienze sessuali”.

Parallelamente si è diffusa, in modo meno ideologizzato ma più strisciante, una cultura del “lasseiz faire” nei confronti dell’infanzia, una tolleranza che diventa disinteresse e disimpegno da ogni forma di responsabilità nei confronti delle nuove generazioni.

Ma accanto alle degenerazioni ideologiche la critica alla educazione tradizionale ha portato fondamentali contributi alla pedagogia a partire dalla rivalutazione della soggettività, dei bisogni legati all’affettività e al mondo emotivo, all’attenzione alla qualità della relazione interpersonale.

Il pensiero di Alice Miller nasce e si sviluppa nel contesto della riflessione e della critica in campo psicoanalitico, ma offre un paradigma fondamentale, anche se non esaustivo, per l’orientamento sulle questioni educative. Soffermandosi sul rapporto tra educazione e maltrattamento, il contributo teorico di Alice Miller, pur non risolvendo la complessità del problema educativo, può fornire, per l’originalità e la radicalità del suo contenuto, un fondamento irrinunciabile ad una pedagogia “dalla parte dei bambini”.

Ma come possiamo accostare il concetto di “pedagogia” alle riflessioni di Alice Miller quando lei stessa afferma che qualsiasi tipo di pedagogia è adultocentrica e che l’educazione, in quanto tale è una stampella necessaria, non già all’educando, ma all’educatore, che non è stato accettato durante l’infanzia e che quindi non sa porsi nei confronti del bambino in modo autentico e libero.

Scrive la Miller: “Il mio atteggiamento antipedagogico non si rivolge contro un determinato tipo di educazione, bensì contro l’educazione in genere, anche quella antiautoritaria (…). Anzitutto non mi pare che il bambino cresca in una ‘natura’ astratta, bensì nell’ambiente concreto delle sue persone di riferimento, il cui inconscio esercita un influsso essenziale sul suo sviluppo. Tutti i consigli che si danno per l’educazione dei bambini rivelano più o meno chiaramente la presenza di molteplici bisogni dell’adulto, di natura molto varia, il cui soddisfacimento non solo non è salutare per la crescita vitale del bambino, ma addirittura la ostacola. Questo vale anche per i casi in cui l’adulto è onestamente convinto di agire nell’interesse del bambino (…)

In antitesi con l’opinione comune (…) non posso attribuire al termine ‘educazione’ alcun significato positivo. In essa intravedo l’autodifesa dell’adulto, la manipolazione dovuta alla propria mancanza di libertà e alla propria insicurezza (…). Nel termine di ‘educazione’ è racchiusa l’idea di determinate mete che l’allievo deve raggiungere e questo riduce sin dal principio le sue possibilità di sviluppo autonomo. Ma l’onesta rinuncia ad ogni tipo di manipolazione e a queste mete preconcette non significa affatto abbandonare il bambino a sé stesso. Egli ha infatti bisogno di trovare nell’adulto un compagno sia sul piano psichico che su quello fisico.”

Possiamo innanzitutto osservare come la parola “educazione” sia, nel senso comune, sempre associata ad un giudizio di valore: c’è la “buona” o la “cattiva” educazione; ci sono i bambini bene educati e i “maleducati”. Da questo punto di vista è ampiamente condivisibile la critica di Alice Miller al concetto di educazione, essendo spesso la “buona educazione” la copertura di comportamenti soffocanti o comunque capaci di espropriare i bambini di parti vitali del Sé, di preziose potenzialità emotive ed affettive in nome dell’adattamento ai “buoni” valori familiari e sociali.

La “buona educazione”, in questa accezione radicalmente adultocentrica, finisce per diventare, in forme occulte, l’adeguamento del bambino ai desideri e alle esigenze dell’adulto e, parallelamente, la pedagogia diventa la scienza ed il metodo volti ad ottenere tale adeguamento nel modo più efficace: diventa in altri termini “una teoria dell’educazione mirante a determinare i fini del processo educativo e i modi più atti a conseguirli.”

La critica milleriana al concetto di pedagogia si estende anche a quello di educazione, “perché in esso è racchiusa l’idea di determinate mete che l’allievo deve raggiungere (…) e questo riduce sin dal principio le sue possibilità di sviluppo.”

In effetti se l’adulto, invece di seguire coerentemente la linea guida del rispetto delle emozioni, tende ad assolutizzare unilateralmente il proprio potere di predeterminare, consciamente o inconsciamente, “i fini del processo educativo”, “le mete che l’allievo deve raggiungere” e i mezzi più idonei a raggiungere i suddetti fini e le suddette mete, rischia inevitabilmente di compromettere l’ascolto e lo sviluppo della ricchezza soggettiva del bambino e di piegarla strumentalmente ai propri obiettivi.

Sul significato della parola “pedagogia” la Miller scrive: “La convinzione pedagogica che si debba fin dal principio condurre il bambino in una certa direzione, corrisponde al bisogno di scindere le parti inquietanti di sé e le relative proiezioni su un oggetto disponibile. La grande plasticità, flessibilità e disponibilità del bambino lo rendono l’oggetto ideale di una proiezione di tal genere. Il nemico interiore può finalmente essere braccato al di fuori di noi.”

Se l’educatore non ha preso coscienza dei propri bisogni insoddisfatti e dei propri conflitti non elaborati finirà per usare il bambino, attribuendo a lui le proprie esigenze emotive inappagate o le immagini negative e distorte di sé, ereditate, nell’inconsapevolezza, dalla propria infanzia.

Per Alice Miller chi da bambino ha visto riconosciuti i propri bisogni di rispecchiamento del Sé e di rispetto coerente delle proprie emozioni o chi da adulto ha potuto trovare comprensione e riparazione alle ferite e alle incomprensioni subite nell’infanzia, non ha bisogno di “educare” i bambini, non ha bisogno di affidarsi a preoccupazioni, tecniche o teorie su come trattare l’infanzia, non ha bisogno di “protesi educative”, bensì può affidarsi ad una linea coerente di rispetto delle emozioni: rispetto autentico e continuativo delle emozioni del bambino, che fonda l’empatia e rispetto attento e contestuale delle proprie emozioni di adulto, che fonda la capacità di dare spontaneamente un limite ai bisogni del bambino.

Non dimentichiamo dunque che Alice Miller problematizza il concetto stesso di educazione e rifiuta come rischiosa ed adultocentrica qualsiasi tipo di pedagogia. Ma noi possiamo distinguere l’educazione come problema posto dalla realtà e l’“educazione” – così come la intende provocatoriamente Alice Miller – come insieme di metodologie, suggerimenti, principi, elaborati nel corso di una storia scritta e dominata dagli adulti, che ha prodotto linee di comportamento e di orientamento, inevitabilmente adultocentriche e non rispettose della vita emotiva del bambino, ma anche della vita emotiva presente nella mente di un genitore o di un “educatore”, la cui infanzia non ascoltata e rimossa continua ad affiorare nella sua vita adulta.

L’educazione però può anche essere vista come una caratteristica umana: il concetto di educazione rinvia al campo della relazione interpersonale tra adulto e bambino e della trasmissione del patrimonio affettivo e culturale intergenerazionale: in quest’ottica l’educazione è parte fondamentale ed irrinunciabile della vita dell’individuo e della comunità. La stessa Alice Miller sembra richiamarsi a questa dimensione fondamentale ed irrinunciabile quando dice che al bambino è necessario l’amorevole accompagnamento dell’adulto: “Questo [il rifiuto della pedagogia e dell’educazione n.d.r.] però non significa che il bambino debba crescere come un piccolo selvaggio. Egli ha bisogno essenzialmente di rispetto da parte delle sue persone di riferimento, di tolleranza per i suoi sentimenti, di sensibilità per i suoi bisogni e per le offese che riceve, di onestà da parte dei genitori, la cui libertà – e non le riflessioni educative – provvederà poi a porre al bambino limiti naturali”.

L’educazione, in quanto problema pratico ed esistenziale ineludibile, può essere utilmente vivificata ed orientata dal contributo teorico di Alice Miller: la cosa fondamentale per l’educatore non è quella di seguire tecniche e teorie pedagogiche, vecchie o nuove, tradizionali o moderne, quanto piuttosto sintonizzarsi con l’intelligenza del cuore della propria infanzia, vuoi con l’energia della propria innocenza e della propria affettività infantile, vuoi con la comprensione delle ragioni della sofferenza e della rabbia infantili.

“In ogni caso – come uno di noi ha scritto – l’infanzia, segnata da gioia o umiliazione, da tenerezza o privazione, da armonia o conflitto, merita di essere ricordata e non già trascurata, disprezzata o cancellata. Non può essere soppressa perché è parte di noi e perché contiene le nostre radici vitali. Non deve essere soppressa, perché se queste radici sono cariche di linfa positiva sarebbe assurdo sopprimere questa sorgente di nutrimento benefico e se, invece, queste radici sono state attaccate ed intaccate e costituiscono oggi una cattiva fonte di alimentazione, a maggior ragione, non dobbiamo sopprimere la nostra infanzia, bensì, al contrario, contattarla mentalmente, ascoltarne il pianto e il rancore, lasciar fluire ricordi e sentimenti nocivi, prendercene cura amorevolmente.”

La consapevolezza e il rispetto della propria vita emotiva, secondo Alice Miller, permette all’adulto di riconoscere e rispettare la vita emotiva del bambino con cui entra in relazione, ma fa anche sì che il minore impari a rispettare se stesso, l’alterità e la diversità, nella relazione con un adulto che non si cela dietro ideologie educative ma si propone in modo autentico e non già violento e strumentale.

Scrive la Miller: “i bambini che vengono rispettati, imparano a loro volta il rispetto. I bambini che vengono serviti imparano a servire, a servire i più deboli. I bambini che vengono amati per quello che sono, imparano anche loro ad essere tolleranti. Soltanto su questa base possono nascere i loro ideali personali, che non potranno non essere umanitari perché nascono dall’esperienza dell’amore.”

Possiamo dunque intendere questo “accompagnamento” come educazione, in questa accezione quasi coincidente con la vita stessa, e possiamo individuare nella pedagogia la teoria della formazione dell’uomo che non può quindi prescindere dai suoi aspetti relazionali, affettivi, emotivi e sociali.

Crediamo quindi che non sia una forzatura ritenere il pensiero di Alice Miller particolarmente rilevante nei suoi contenuti educativi e pedagogici. Molto significativa è la stessa scelta della psicoterapeuta zurighese di dedicare gran parte della sua vita alla divulgazione delle proprie idee, intesa come impegno a comunicare le ragioni dell’infanzia, le ragioni dell’infanzia ovunque essa si manifestata, nella propria vicenda umana, nei casi dei pazienti, nelle storie degli uomini divenuti celebri ed anche di quelli che da adulti hanno scelto la strada della violenza criminale o del dominio su altre persone.

La scelta della scrittura come testimonianza scritta della sua esperienza esistenziale e professionale, conferma la tensione educativa di Alice Miller, che non scrive per convincere, ma per testimoniare la propria verità ed accompagnare il lettore nella propria personale rielaborazione. Sono proprio queste le caratteristiche di un educatore dalla parte dei bambini: in primo luogo saper dimostrare, nei fatti, con la propria testimonianza personale, con il proprio impegno emotivo e relazionale, con la propria coerenza tra le cose che si dicono e le cose che si sperimentano, che esiste una modalità rispettosa e maturativa di rapportarsi agli altri, di vivere il rapporto intergenerazionale, di affrontare le difficoltà e la sofferenza, di avere consapevolezza dei propri limiti; di conseguenza saper accompagnare il bambino, con sollecitudine, affetto, attenzione ai bisogni, alla scoperta ed allo sviluppo delle proprie potenzialità.

 

Note

1. A. Miller, L’infanzia rimossa, Garzanti, 1990, pp. 94-97.

2 Idem.

3 Idem, p.87

4 Idem, p.79.

5 A. Miller, La persecuzione del bambino, Boringhieri, Torino, 1987, p. 95.

6 C. Foti, Dalla parte dei bambini: i bisogni e i valori dell’infanzia, Sie Edizioni, 2009, p. 44.

7 A. Miller, op. cit., 1990, p. 98.