L’illusione del cambiamento mentale e relazionale affidato al farmaco

L’illusione del cambiamento mentale e relazionale affidato al farmaco

di Claudio Foti

Aumenta con la crisi economica, la crisi sociale e la crisi morale della nostra comunità la tendenza ad oggettivare e stigmatizzare le persone con diagnosi oggettivanti e con risposte farmacologiche che deresponsabilizzano il soggetto sofferente e portatore del problema. Al posto del cambiamento delle relazioni intorno a questo soggetto e della trasformazione psicologica del soggetto stesso, viene enfatizzato il farmaco e viene negato il ruolo della crescita mentale della consapevolezza, dell’attenzione e dell’amore di sé nella persona sofferente e il ruolo della comprensione e della solidarietà nell’ambiente circostante.

Perfino con i bambini la tentazione di ricorrere all’illusione chimico-farmacologica per risolvere i problemi illusione chimico risulta sempre più forte, anche quando è evidente che dovrebbero essere i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali attorno al bambino a mettersi in discussione e ad operare cambiamenti nei loro comportamenti, nei loro atteggiamenti e nelle loro relazioni con quel bambino.

Si danno farmaci invece di proteggere i bambini da relazioni disturbanti o confusive, si danno calmanti a bambini che dovrebbero essere più visti, più rispettati, più abbracciati, più contenuti da atteggiamenti educativi ed affettivi maggiormente basati sul principio di realtà e sull’amore.

Sono la consapevolezza e la compassione che rappresentano in maniera incontrovertibile, sia per gli adulti che per i bambini, le più formidabili risorse per la cura e per il cambiamento. Si contrappone a questa evidenza l’illusione sociale dominante in base a cui i problemi mentali e relazionali possono risolversi nettamente, profondamente, strategicamente con i farmaci.

Quando nel 1987 venne messo in commercio il Prozac, nello scenario culturale e scientifico statunitense, non comparve soltanto uno strumento farmacologico che poteva essere utilizzato nel trattamento della depressione, ma iniziò ad affermarsi un mito: quello della via risolutiva chimico-farmacologica alla salute psichica degli esseri umani con la definiva messa in naftalina delle psicoterapie. Ben presto negli Stati Uniti la spesa per acquistare il Prozac raggiunse i due miliardi di dollari in un anno ed in effetti le psicoterapie diminuirono nei decenni successivi in modo rilevante nel confronto con i trattamenti basati sui farmaci.

«Sulla scia del successo del Prozac ci è stato ripetuto fino alla nausea che la depressione rispecchia uno squilibrio biochimico e che il Prozac, o altre sostanze in grado di inibire l’eliminazione della serotonina, sono la via maestra della guarigione. Tuttavia, passato il momento iniziale in cui il Prozac sembrava essere una nuova penicillina, la realtà è tornata a farsi sentire. Anche quando funziona (un terzo dei depressi non risponde al farmaco), il Prozac ha bisogno di qualche settimana per fare effetto, la frequenza delle ricadute è alta, e molti pazienti sembrano doverlo assumere per sempre. » (S. Begley,  La tua mente può cambiare, Rizzoli, Milano, 2007, p. 190.)

Non è certo qui in discussione il principio in base a cui soprattutto in situazioni gravi gli psicofarmaci possano essere utili o indispensabili e che in moltissimi casi sia possibile una convergenza fruttuosa tra farmacoterapia e psicoterapia. Voglio piuttosto sottolineare come nella vicenda del Prozac abbia acquistato forza rapidamente nella comunità scientifica, nei media, nell’opinione pubblica l’illusione della cancellazione del dolore depressivo attraverso il farmaco, mentre la strada dell’attivazione della consapevolezza dei pazienti depressi o sofferenti mentali sia diventata meno convincente: sia il soggetto depresso, sia il soggetto curante, sia la comunità sociale e scientifica hanno fatto un passo indietro rispetto all’impegnativo cammino dell’assunzione di una responsabilità mentale nei confronti della depressione.

Come dire: se ci pensa il farmaco, della genesi psicologica, sociale, relazionale della depressione non dobbiamo più occuparcene noi! Diverse ricerche tra cui alcune basate sull’applicazione delle tecniche della presenza mentale alla terapia cognitivo-comportamentale hanno dimostrato che la cura psicologica della depressione può contrastare la riattivazione della rete neuronale depressiva e ridurre le ricadute.

Nel 2000 Teasdale, Segal e Williams hanno dimostrato che con la terapia cognitiva basata sulla presenza mentale i pazienti senza ricadute arrivavano al 66% del campione studiato contro il 34% trattati con le cure tradizionali. Nel 2004 Teasdale e Ma ottenne risultati analoghi in una ricerca su pazienti che avevano avuto tre o più episodi depressivi: le ricadute riguardavano solo il 36 % dei pazienti trattati con la terapia cognitivo comportamentale basata sulla presenza mentale, mentre riguardavano il 78% dei pazienti trattati abitualmente. (S. Begley, ivi, p. 185 e sgg.)

Se queste terapie psicologiche avessero comportato l’uso di farmaci sarebbero state immediatamente validate ufficialmente come rimedi efficaci e sicuri. Ma poiché non sono state sviluppate da case farmaceutiche capaci di investire i loro profitti in lobbies, in documentazioni giornalistiche e in campagne pubblicitarie, il loro valore scientifico o il loro utilizzo stentano ad affermarsi.

Queste terapie sono in grado di incidere sull’attività neuronale ma in modo diverso e più efficace degli antidepressivi, correggendo per es. l’iperattività nella corteccia frontale, sede dei ragionamenti logici e, dunque delle elucubrazioni depressive. In altri termini le responsabilità del prendersi cura della propria mente può indurre modifiche cerebrali più incisive e durature di quelle indotte dai farmaci.

Le ricerche neuroscientifiche sulla capacità della psicoterapia di modificare il cervello hanno dimostrato che la possibilità della mente di osservare se stessa, la capacità di pensare consapevolmente e criticamente i propri schemi deprimenti può modificare i circuiti che sono all’origine di quegli schemi.