NON C’E (QUASI MAI) ASCOLTO PER CHI E’ ABUSATO. NON C’E (QUASI MAI) ASCOLTO PER CHI E’ FERITO di Claudio Foti

NON C’E (QUASI MAI) ASCOLTO PER CHI E’ ABUSATO. NON C’E (QUASI MAI) ASCOLTO PER CHI E’ FERITO di Claudio Foti

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Kevin, un bambino abusato sessualmente dal padre, viene costretto a visite “protette” (?!?) con il padre stesso: tende a reagire violentemente contro chi lo forza a stare in stanza con il padre, tende a scappare, a correre infuriato nella strada, rischiando di farsi del male. Accumula incidenti nei giorni precedenti e successivi le visite del padre. Ha la tipica tendenza dei bambini traumatizzati a rimettersi in situazioni di pericolo, di rivittimizzazione.   Tende a gettare oggetti contro gli educatori dello spazio neutro ed un assistente sociale afferra per un polso Kevin e gli fa del male.

Invece di ascoltarlo attentamente, gli operatori preferiscono stigmatizzarlo. Il suo comportamento viene definito gravissimo: dovrebbe adattarsi e non lo fa! Il padre è stato assolto dunque, si deduce, è innocente e la sentenza giudiziaria – che pure non equivale ad una diagnosi clinica – genera negli operatori un’incomprensione assoluta e violenta del comportamento di Kevin. Non si pone in alcun modo l’esigenza di dare uno spazio di ascolto del bambino. Gli operatori del sistema psico-socio-giudiziario partono da uno schema aprioristico ed irriducibile che il bambino non può che essere un bugiardo ad ostinarsi a dire che il padre gli prendeva il pisello in bocca e lo costringeva a cose schifose. Non può che essere un prevaricatore, un bambino disturbato, folle (“disturbo oppositivo!”), un bambino che è stato alienato dalla mamma o da qualcun altro che gli ha messo in tesa quelle fissazioni. Non viene considerato che il bambino presenta tutti gli indicatori di un trauma sessuale. Non conta il fatto preoccupante che Kevin inizi ad intimidire sessualmente i suoi coetanei. Non importa se Kevin presenta dentro di sé e nel proprio corpo un manuale vivente della sindrome post-traumatica da stress.

Quello di Kevin è uno degli infiniti casi di soggetti traumatizzati, bambini o adulti, accusati di non sapersi adattare, di essere oppositivi senza motivo, di essere disturbati, distruttivi, disadattati, bugiardi, colpevoli.

L’atteggiamento più comune nei confronti di problemi di origine psicologica di natura traumatica è quello di accusare senza ascoltare, di etichettare senza capire, perché la verità di cui sono portatori è una verità scomoda come nel caso di Kevin: che chiama in causa il comportamento del padre, persona per bene, e socialmente affermata, che chiama in causa il comportamento dei giudici, dei periti e degli operatori che non hanno saputo ascoltare e valutare con rispetto le ragioni del bambino.

I soggetti traumatizzati vengono invitati ad adattarsi al presente senza adeguato aiuto e a “farsi una ragione” del passato, a “tirare avanti”, “smetterla di rinvangare il passato”… senza essere aiutati a rielaborare il proprio trauma.

Il giudizio sociale prevalente nei confronti di soggetti traumatizzati è che si tratti di persone menzognere, disadattate, vendicative e dunque colpevoli. Non si riconosce che si tratta di soggetti che hanno magari atteggiamenti inadeguati , ma in quanto provengono da storie terribili, sono stati e sono soggetti violentati, spaventati, depressi, isolati e remissivi, che coprono magari le loro fragilità con atteggiamenti aggressivi ed onnipotenti.

Come scrive Judith Herman (“Guarire dal trauma”), alle persone traumatizzate viene fatta spesso una diagnosi errata e somministrata una cura inadeguata nel sistema sociale e sanitario e i sintomi estesi e complessi tendono ad essere curati in maniera insufficiente e discontinua. C’è una compulsione a ripetere il trauma nella relazione terapeutica ed educativa e c’è una compulsione degli operatori nel sistema giudiziario e nel sistema socio-sanitario educativo a ricreare il contesto familiare vittimizzante.

Il soggetto traumatizzato finisce per sollecitare nell’operatore – spesso non adeguatamente attrezzato e sensibile dal punto di vista emotivo e spesso incapace di identificazione con la vittima di un trauma – atteggiamenti che riproducono le azioni di rifiuto, di colpevolizzazione, di mancata comprensione, di violenza, che il soggetto traumatizzato ha già conosciuto nelle violenze o negli abusi patiti in precedenza.