Portiamo loro la peste e non lo sanno

Portiamo loro la peste e non lo sanno

Jacques Lacan cita un dialogo tra Freud e Jung, Freud arrivando negli Usa per un ciclo di conferenze avrebbe detto a Jung: «Portiamo loro la peste e non lo sanno».
Freud si riferiva probabilmente alla problematicità e alla sofferenza che si accompagna alla scoperta di un mondo, quello inconscio, pulsionale, alla peste intesa come il crollo di una idealizzazione dell’umanità vista come buona o cattiva (non importa) ma sostanzialmente razionale e padrona di se stessa.
Credo che chi è vittima di abuso porti con sé la peste.
Porta con sé la testimonianza viva che il mondo degli adulti non è sempre buono ed amorevole nei confronti dei propri piccoli, porta con
sé il dubbio, la confusione, l’incertezza che derivano dal sentir
vacillare l’idealizzazione sull’infanzia e sulla famiglia; porta la testimonianza sull’esistenza della perversione, del male.
Chi è stato vittima di abuso ed ha l’impudenza di dirlo rifiuta la
vergogna in cui l’abusante prima e poi il contesto familiare e
sociale, ha cercato di confinarlo, ed allora quella vergogna, quella confusione, quell’orrore, quella sofferenza, diventano un “patrimonio”
di tutti quelli che ascoltano.
In particolare il bambino, o l’ex bambino, che parla del suo abuso,
rifiuta la colpa e la restituisce all’abusante e a chi doveva
proteggerlo e non lo ha fatto.
Quando, dopo tanti anni, ho deciso di raccontare alla mia famiglia dell’abuso che io avevo subito, da parte di mio fratello Celestino, ho avuto ancora una volta esperienza di cosa significa non avere una famiglia e non avere ascolto: Celestino mi ha detto che sono un pezzo
di merda perché non mi curavo del turbamento che avrei procurato a mia madre anziana, ossia a quella stessa madre che pur avendo capito dell’abuso che stavo subendo non aveva fatto nulla per proteggermi.
Più gentile è stato un altro dei miei fratelli, Vincenzo, che mi ha
detto: “Ma sono passati quasi quaranta anni, in tutto questo tempo non hai mai detto nulla, perché devi parlarne proprio adesso?”.
C’è stata finalmente concordia in famiglia: mia madre, mio fratello Celestino e mio fratello Vincenzo erano concordi nel ritenere che io avevo fatto questi discorsi perché esaurito dal troppo lavoro.
Non importa essi vedano con chiarezza come il fratello abusante sia diventato un alcolizzato sempre più disperato e con sempre meno contatti con la realtà, non importa che io sia letteralmente sommerso,
di giorno e di notte, da telefonate di questo fratello che mi racconta ossessivamente i suoi problemi: io sono stato rimproverato perché ho poca pazienza con Celestino: sono stato rimproverato perché dico che è malato e bisognoso di aiuto.
Credo che spesso gli adulti siano capaci di fare di tutto, di
nascondere e nascondersi anche le verità più semplici, di calpestare ogni diritto ogni dignità ogni “buon senso” pur di non percepire, non sentire l’abuso sessuale.
Vincenzo mi ha detto: “Non mi è piaciuto che tu ne parlassi così, all’improvviso, senza dire nulla a me prima”. Insomma, la rivelazione dell’abuso non dovrebbe essere fatta, ma se proprio si insiste, almeno che venga fatta nei tempi e nei modi che all’adulto convengono!
Nella mia famiglia non c’è peraltro un problema giudiziario che possa essere addotto a motivo dell’omertà o della reticenza. Ho assistito al crearsi di un “blocco adultocentrico” di una unità di intenti tra chi
ha abusato e chi doveva proteggere, teso a non percepire la colpa, ad evacuare la sofferenza cercando ancora una volta di ribaltarla sulla vittima: sei tu che sei matto.
Ho visto quanto è stato destabilizzante per il mio nucleo famigliare
che ha agito, tollerato, “non visto” l’abuso, trovarsi di fronte improvvisamente a una sorta di “restituzione” della colpa e della vergogna. Quando io, la vittima divento indisponibile a stare ancora
zitto, divento indisponibile a “comprendere”, divento indisponibile ad assumermi la colpa e la vergogna, l’effetto è talmente destabilizzante che non si riesce neppure a credere che davvero io sia consapevole di quello che dico: sarò esaurito, sarò stato condizionato, plagiato, indotto…
Poi mia madre si è dimostrata, almeno in parte, disponibile ad
ascoltare. Da questo confronto ho compreso altre cose.
Mia madre mi ha chiesto: “Ma perché non hai parlato prima?”
Non ho parlato prima perché da bambino ho vissuto quello che si è riattualizzato oggi nel dialogo con mia madre: io le racconto
dell’abuso e lei mi racconta dei suoi problemi (certamente enormi… non si tratta di colpevolizzarla ma di dare una risposta concreta alla domanda “perché i bambini non parlano?”) e dato che io ascoltavo lei me ne parlava sempre di più. Ma questo, in altre forme, accadeva anche quando ero bambino. Mia madre stessa lo ha capito, mi ha detto in quale confusione, sofferenza, lei stessa viveva: ho avuto genitori
così preoccupati da non potere più farsi carico di altre
preoccupazioni, sono stato un bambino che ha cercato di proteggere i suoi genitori.
Mia madre qualcosa aveva visto, aveva visto mio fratello Celestino
sopra di me che cercava di baciarmi e toccarmi, ma ci ha
schiaffeggiato tutti e due. La confusione e la colpa non avrebbero
potuto per me essere più grandi, insostenibili per un bambino di sei
anni.
Finito l’abuso ho rapidamente dimenticato, fino alla pubertà, ma,
usiamo questa immagine, l’abuso non si è dimenticato di me.
Finito l’abuso non finisce però il bisogno di essere ascoltati nella
propria verità e nei propri sentimenti e la negazione di questo
bisogno è la chiave di tutto ciò che avviene poi: se nessuno ascolta i
miei sentimenti allora forse non esistono, allora forse non sono degni
di essere ascoltati, sono falsi, riprovevoli, qualcosa che è meglio
non sentire, se io piango mi commuovo sono un ipocrita. Droga e
alcool, nell’adolescenza, sono un modo consueto per non sentire,
(altro che pensare che la droga esalti le sensazioni le emozioni, ci
si droga proprio per anestetizzarsi).
Ma la considerazione che forse può interessarci di più oggi è perché
io oggi (come forse molti tra noi) abbiamo, pur con mille
contraddizioni, maturato questa attuale consapevolezza? Ossia perché io, che da bambino sono stato vittima di abuso sessuale, non sono diventato un perverso, un pedofilo, perché pur tra tanti momenti di smarrimento e confusione, non sono diventato un deviante un tossicodipendente un alcolizzato?
Mio fratello Celestino, cercando di giustificarsi, mi ha detto: “Io
abusavo di te ma tu eri per me come un frigorifero, come un gatto”.
Ero diventato una cosa, Reificare è peraltro il primo, indispensabile passo per ogni forma di violenza. Per negare l’umanità dell’altro
bisogna anche non sentire la propria umanità.
Perché io non sono così? Certamente perché nell’adolescenza e in particolare nell’età adulta mi sono stati dati altri modelli di vita,
altre speranze e consapevolezze. Perché mi è stata data la possibilità
di abbattere il muro del silenzio, di abbattere quei muri di silenzio
dentro ai quali vivono e prosperano i perversi e dentro ai quali i
bambini abusati soffrono di una sofferenza smisurata proprio perché indicibile.
Ma ciò che più mi inquieta è che io credo che una parte di amore ed attenzione, di cui mi sono nutrito e che mi ha permesso di
sopravvivere, viene proprio da questa mia famiglia così inadeguata, viene dal quel “minimo” di amore che i miei genitori, pur tra mille contraddizioni, mi hanno dato, viene anche dal disperato e distruttivo amore dei miei fratelli.
Non credo di riuscire a capire il motivo di tutto questo, ma mi rassicuro nel vedere il viso, felice o arrabbiato, sereno o inquieto, ma comunque vitale, di mia figlia.
Andrea