Quando la morte tocca la scuola

Quando la morte tocca la scuola

di Silvia Carnisio

Quando i nostri allievi o i nostri figli vengono toccati dalla morte, noi adulti, noi insegnanti spesso ci lasciamo prendere dal panico. È successo all’inizio dell’anno scolastico in corso, quando, il primo giorno di scuola, apprendiamo dai giornali che il papà di una nostra allieva è stato ritrovato morto in circostanze poco chiare. Ci sconcerta constatare che quel giorno stesso la ragazza si presenta a scuola, ride e scherza come se niente fosse. Della tragedia che l’ha colpita neanche una parola.

Le reazioni del corpo insegnante si diversificano nella forma, ma non nel contenuto: della morte non si parla. Vietato nominarla, basta la parola “condoglianze”, pronunciata in tono sommesso e sguardo triste. E così i nostri ragazzi rimangono soli ad affrontare una realtà troppo dolorosa per poter essere mentalizzata. Ecco che allora escogitiamo le scuse più disparate: “Meglio non parlarne, magari la ragazza non lo sa neanche che suo padre è morto”, “Se non ne parla lei, vuol dire che non ne vuole parlare”, “Non voglio riattivare il suo dolore”, “Non saprei come giustificare la mia intromissione in una questione così personale”, “In queste circostanze non so mai cosa dire”, “Non ci sono parole”… E la ragazza resta sola col suo dolore, la sua rabbia, la sua confusione.

Mi sento chiamata in causa, in quanto persona ed in quanto educatrice, chiamata a prendere per mano questa mia allieva che si sta addentrando sola nei meandri della vita. Inizio la lezione con un circle time, come siamo abituati a fare in questa classe in occasioni speciali. Conduco il gruppo secondo i principi dell’intelligenza emotiva lungo un percorso che possa facilitare la comunicazione di eventi spiacevoli. La ragazza, che inizialmente sembrava schiva, si lascia invece coinvolgere facilmente, e comunica al gruppo classe, ancora ignaro dei fatti, la morte del padre. Appare chiaro che il suo bisogno di avvicinare il dolore alla presenza di un “testimone soccorrevole” è molto più forte della resistenza. L’aspetto positivo di questo intervento è duplice: per prima cosa lei ha avuto la possibilità di piangere almeno qualcuna delle sue lacrime, affidando ad altri una parte del suo dolore; la sua comunicazione autorizza una compagna a mettere in parola la morte della madre, avvenuta sei anni fa, morte della quale lei non ha mai fatto parola.

Voglio raccontare anche di un’altra mia allieva, che l’anno scorso ha perso il papà colpito da un infarto in una strada poco frequentata e quindi morto per mancanza di soccorsi. Luisella è una ragazza molto chiusa, ma soprattutto non le è possibile, nel periodo che segue e fino ad oggi, parlare della morte del papà. All’interno del progetto “Imparo ad ascoltare, ascolto per imparare”, che da due anni conduco nella mia scuola, offro a Luisella la possibilità di avvicinarsi gradualmente a questo grande dolore. I passaggi che lei attraversa sono interessanti.

In un primo incontro si offre spontaneamente di partecipare al gioco della presentificazione delle emozioni e sceglie la tristezza. Attraverso la conseguente elaborazione emotiva e riflessiva diventa consapevole della funzione adattativa della tristezza, ma anche del fatto che, poiché essa è un’emozione legata alla perdita, forse può segnalare la perdita di contatto con un’altra emozione, nel suo caso la rabbia, quindi la perdita di una parte di sé.

In un incontro successivo decido quindi di lavorare sulla rabbia. Propongo un’attivazione a coppie in cui i partecipanti sono invitati a raccontare al compagno una situazione in cui si sono molto arrabbiati. Luisella racconta un episodio alla compagna, ma poi ne censura la comunicazione al gruppo. Nell’elaborazione emotiva che segue, alla domanda “Cosa vi ha colpito di più nel corso di questa attivazione?”, Luisella fa riferimento ad una compagna, ma non riesce assolutamente a dire cosa l’ha colpita e perché. Le chiedo allora se se la sente di dire anche solo una parola, una sola, quella che ha fatto scaturire le sue lacrime. La parola che le esce in un sussurro è “papà”.

È trascorsa una settimana da quell’incontro. Oggi, al termine delle lezioni, Luisella mi avvicina e chiede di parlarmi.

“Oggi è il compleanno di mio papà. Vorrei andare al cimitero, non ci sono mai stata ed ormai è passato un anno, ma ho paura di non riuscire ad entrare, come mi è successo l’unica volta che ci ho provato“.

“Cosa pensi, Luisella, che ti impedisca di farlo?”.

“Il fatto che finora non ci ho voluto credere che è davvero morto, mi sembra che andare sulla sua tomba dia concretezza all’evento”.

Oggi Luisella prenderà il treno da sola, perché il papà è sepolto lontano, ed andrà a festeggiarne il compleanno. Mi riempie di gioia sapere che proprio mentre scrivo lei sta diventando adulta, e si sta riconciliando con l’appendice ultima della vita, che è la morte. Perché amare la vita significa amarla tutta intera, anche nella sua ultima parte.