QUANTO L’AMORE CI PORTA A CAPIRE NOI STESSI? di Sandy Sammartino

QUANTO L’AMORE CI PORTA A CAPIRE NOI STESSI? di Sandy Sammartino

“Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”, scrive Franz Kafka. Nelle sue lettere Kafka ama ed è ricambiato, ma la sua sofferenza è immensa e definitiva. L’amore dell’altro per Kafka evoca un coltello, una dimensione molto conflittuale, ma è comunque l’alterità che suscita il suo amore ad essere decisiva: dell’amore dell’altro egli ha bisogno per comprendersi.

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Sul balcone della pensione di Ottoburg di Merano, dove si era recato per un soggiorno di cura, Kafka scrive, a partire dall’aprile del 1920, le prime lettere a Milena, una giovane che aveva conosciuto a Praga. Prima di Milena ci furono altre donne nella vita di Kafka, ma nessun’altra riuscì ad entrare cosi in profondità l’animo di un uomo costretto all’ascesi non per vocazione o come scelta di un atto eroico, bensì per la sua incapacità di scendere a compromessi. Queste Lettere a Milena sono la cronistoria di un amore complesso, profondo e che già prima di iniziare sembrava destinato a finire. Nel caso specifico di Kafka le lettere e i diari sono il modo più efficace per comprendere la vita dello scrittore, snodare le sue problematiche psicologiche e comprendere i suoi difficili rapporti con gli altri esseri umani e con la propria stessa opera. Tutto questo è soggetto ad un’interpretazione personale di chi legge, perché una risposta chiara non è mai arrivata. Kafka infatti aveva chiesto in punto di morte all’amico Max Brod di distruggere tutti i suoi scritti ed è stato solo grazie al “tradimento” di Brod se noi possiamo godere per intero nel suo lavoro. Penso che la poesia di Kafka e il suo amore per Milena si avvicina alla comprensione dell’amore, di quanto siamo fragili, e di quanto rende fragili, e di quanto impossibile sia resistergli.

Quanto l’amore ci porta a capire noi stessi? Quanto la ricerca del sé resta incompleta senza l’altro?

Nella visione individualistica del mondo moderno sembra inconcepibile pensare che l’affermazione del sé possa avvenire tramite l’altro. Per l’uomo non è certo agevole definire il senso dei sé in un contesto culturale frammentato e in cambiamento che sembra fortemente condizionarlo e inibirlo nella sua libertà. Egli si mostra smarrito, incapace di autonomia e di visione critica. Fragile si rivela la sua capacità di reagire, dove egli manifesta maggiormente lo smarrimento più profondo è nella sua difficoltà a definire se stesso e il suo rapporto con l’altro. L’incomunicabilità lo isola, lo rende ancora più solo, lo costringe a cercare ossessivamente una sterile e inappagante “compagnia” nel rapporto con l’oggetto acquistato e subito “consumato”. Egli vive in un insieme sociale, che non lo contiene e non lo alimenta, perché non riesce più ad esprimersi nella comunità. La sua crescita culturale e psicologica è fatta anche di angosce, di dolori, di frustrazioni, di sofferenze, di vuoti. Ciò che caratterizza il disagio psichico dell’uomo sembra essere l’indicibilità della sua sofferenza, che rende i nuovi disturbi mentali per molti aspetti impenetrabili. L’esperienza soggettiva della sofferenza può essere vissuta come indicibile e può diventare indecifrabile, incomprensibile, quando non c’è nessuno che ascolta veramente quell’urlo o qual silenzio che strazia, che lacera il cuore. Ogni interazione ci colpisce e ci influenza più di quanto possiamo concepire. La mente è relazionale ed il rapporto con l’altro ci fonda e dà un senso all’identità psichica di ogni individuo. Non solo la mente è relazionale, ma la sua relazionalità si nutre costantemente di una dinamica fatta di reciprocità. Negli ultimi anni le neuroscienze hanno dimostrato come il nostro sistema nervoso sia costituito per potersi “agganciare” a quello degli altri esseri umani, tanto da poter fare esperienza degli altri “come se” ci trovassimo nella loro stessa pelle. La vita mentale di ciascun individuo umano è una costante co-creazione, di un continuo dialogo con le menti degli altri. Cresciamo in base agli insegnamenti dell’altro, ci strutturiamo in una dimensione intersoggettiva grazie alla soggettività amorevole di un altro e non ci si deve stupire all’idea che anche nell’amore ci siano le basi per ritrovarsi.

E’ attraverso l’altro che possiamo connetterci a noi stessi. L’intelligenza emotiva sollecita a connettere la consapevolezza alla vita emotiva, il pensiero e la parola autentica ai sentimenti, ma queste connessioni sono consentite dalla presenza di un altro capace di accettazione e di comprensione, mentre risultano impedite da un altro giudicante e non amorevole.

Fonti

http://www.psy-com.org/it/congresso-2008/relatori-del-congresso/69-il-senso-di-se-lincontro-con-laltro-e-laccettazione-del-limite.html

Franz Kafka: “Amore… tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”