RECUPERARE I “CATTIVI” … ma noi siamo veramente buoni ?

RECUPERARE I “CATTIVI” … ma noi siamo veramente buoni ?

La distinzione / contrapposizione fra buoni e cattivi affonda le sue origini negli schemi di pensiero più arcaici ed emotivi dell’essere umano. Spesso può accompagnarsi ad una valutazione adeguata della pericolosità e della negatività dei comportamenti dei cosiddetti “cattivi”, ma spesso può essere influenzata  da una visione schematica e difensiva della realtà, che permette di stabilire  la frontiera tra il bene e il male a proprio uso e consumo,  usando i meccanismi psichici della scissione e della proiezione in base ai quali  il bene viene attribuito al campo soggettivo mentre il male viene collocato nel campo dell’alterità.

E’ indubbio che i “cattivi” (per es. i genitori violenti o i sex offenders o i giovani bulli) possano in effetti mettere in atto comportamenti distruttivi  producendo un danno evolutivo incalcolabile nelle vittime (gli esiti del maltrattamento e degli abusi sul bambino possono condizionare e addirittura rovinare il futuro della vittima, tanto più precoci, duraturi e coinvolgenti essi risultano).  Gli esiti nocivi della violenza possono essere terribili sul piano fisico e soprattutto sul piano psicologico per la vittima.

Dare uno stop sul piano repressivo e sul piano culturale alla violenza è indispensabile per impedire la riproduzione sociale o intergenerazionale della violenza.  Fermare i comportamenti onnipotenti ed impulsivi dei “cattivi” è la premessa  per far sì che il loro senso di invulnerabilità venga frustrato, aprendo nella mente del  “cattivo” uno spazio di riflessione,   messa in discussione e di disponibilità a farsi aiutare.

Ma una risposta che miri  alla  segregazione e all’umiliazione  ai danni del “cattivo” soffia sul fuoco della violenza, non serve a fermare le recidive. Non serve alle vittime e non serve alla società.

Per sviluppare una sensibilità nei confronti del rischio endemico  della  violenza e dell’abuso nei confronti dei più deboli, non bisogna rimuovere il dato che i cattivi di oggi sono stati ieri bambini offesi e dimenticati.  Occorre sforzarsi a comprendere come si diventa “cattivi” non certo per giustificare il male o per attenuare una risposta coerente di contrasto all’onnipotenza sottesa alla violenza.

Arrestare gli adulti violenti e nel contempo tenere a mente i bambini che sono stati. Empatizzare con la sofferenza delle vittime e nel contempo con la fragilità degli autori, una fragilità  che s’è trasformata in dominio e sopraffazione. Contrastare chi simpatizza o collude con la violenza e nel contempo chi non capisce che essere cattivi con i cattivi favorisce una cultura dell’odio e non quella della protezione e dell’aiuto nei confronti delle donne violentate, dei bambini maltrattati, dei soggetti più deboli.

Occorre problematizzare radicalmente una rigida contrapposizione tra buoni e cattivi. Cogliere l’umanità – anche se distorta e negata – dei “cattivi” non ci fa cadere in un perdonismo buonista, ma ci  ricorda che la violenza è un sintomo che può essere generato dalla sofferenza non ascoltata e soffocata.

In molte situazioni può diventare “cattivo” chi risulta diverso e fragile rispetto alla comunità  sociale (è il caso dell’immigrato, del bambino o dell’adulto problematico e sofferente, del soggetto traumatizzato che tende ad essere psichiatrizzato …). Tanto maggiori sono le frustrazioni e le tensioni che attraversa una comunità, tanto più si possono  sviluppare atteggiamenti di paura, diffidenza, segregazione e violenza nei confronti dei soggetti più fragili e socialmente perdenti.  Guai ai deboli!  In una società in crisi, come la nostra, possono diventare come capri espiatori su cui scaricare  le difficoltà e le infelicità collettive.

Un solo esempio: l’atteggiamento di rifiuto sociale colpisce violentemente e scientificamente bambini che risultano  portatori di comportamenti problematici di irrequietezza ed aggressività e che vengono designati come “cattivi”, oggetto di trattamenti medici, di espulsione  o di emarginazione istituzionale, trattamenti  che si rifiutano di prendere in considerazione le cause emotive, relazionali ed ambientali del comportamento di questi bambini.