Ricordando Daniela Bruno

Ricordando Daniela Bruno

È morta Daniela Bruno. Una collega, straordinariamente disinteressata ed intelligente, con cui abbiamo condiviso tanti impegni e tante discussioni sulla tutela dei bambini. Ha dedicato molta parte della sua vita all’educazione e alla cura dell’infanzia. Nei confronti del gioco dei bambini mostrava un’attenzione lucida e profonda. Ha fatto un pezzo del suo percorso con noi contribuendo all’elaborazione della nostra metodologia formativa, centrata sul gioco. Ci piace ricordarla pubblicando un suo contributo rilevante proprio su questo tema.

 

Problemi e prospettive nella formazione degli operatori minorili sul tema dell’abuso sessuale.

di Daniela Bruno

 

“Solo l’esperienza mobilita le energie necessarie per il cambiamento, cioè per l’apprendimento complesso e la modifica dell’immagine di sé, nonché per la modifica dei delicati modelli di rapporto interpersonale; solo l’esperienza mobilita di fatto tutti gli aspetti della persona e, in particolare, la sua globalità razionale ed emotiva”. (Massimo Bruscaglioni, 1991)

 

1. Uno sguardo d’insieme

L’apprendimento per l’adulto comporta non tanto un’aggiunta, quanto una modificazione della conoscenza già posseduta, modificazione attinente all’idea che il soggetto ha del proprio ruolo professionale. Apprendere significa mettere in discussione le proprie conoscenze, i modelli culturali e di comportamento operativo ad esse sottesi, modelli che fondano l’esercizio della professione. In particolare, la formazione nell’ambito dei servizi alla persona, se non è unicamente rivolta a fornire informazioni, incontra inevitabilmente gli aspetti dell’immagine di sé dell’adulto, le idee e le emozioni che sono alla base degli atteggiamenti interpersonali e delle modalità di relazione con gli altri. “L’obiettivo è quello di contribuire a rendere consapevole chi è impegnato in vario modo in ambito educativo delle proprie tonalità emozionali, della loro presenza e incidenza sui moduli comunicativi abitualmente o eccezionalmente utilizzati, del loro partecipare all’attribuzione di significato che si riconosce, o meno, a se stessi, agli altri, alla realtà in generale. Tutto questo dovrebbe valere peraltro come punto di partenza per perseguire un ulteriore e ancor più complesso e plurale obiettivo: agevolare nel soggetto educativo la progressiva presa di coscienza delle informazioni che gli provengono dai suoi vissuti emozionali, la capacità di riconoscere questi ultimi nelle loro sfaccettature, anche se appaiono incoerenti e contraddittorie, la capacità di comunicarli ad altri ed, eventualmente, di modificarli, arricchendoli, integrandoli, correggendoli” (Bruscaglioni, 1991).

Dalla complessità che la formazione degli operatori minorili comporta, per la presenza nell’adulto di modelli ideali e perfezionistici di ruolo, di componenti emotive e componenti culturali e cognitive non sempre coerenti tra loro, di meccanismi difensivi che inibiscono l’apprendimento, per le immagini soggettive del bambino e dell’adolescente su cui influiscono gli schemi relazionali sperimentati nel proprio passato, scaturisce che il formatore dovrà farsi carico di agevolare nell’adulto l’individuazione dei modelli di rapporto adottati nei confronti dei minori, la loro rappresentazione mentale e i fenomeni emozionali connessi. Per rispondere a questa esigenza, il Centro Studi Hansel e Gretel ha elaborato una proposta formativa tesa a sviluppare in particolare le competenze emotive e relazionali dei soggetti coinvolti, prevedendo come ambito formativo il piccolo gruppo. Il gruppo con un massimo di venti partecipanti consente di realizzare obiettivi che la conferenza o il lavoro assembleare difficilmente possono raggiungere:

• Essere un luogo dove le persone si possono avvicinare e conoscere autenticamente, al di là degli schieramenti ideologici e delle immagini di sé formali o superficiali. Il conduttore ha il compito di favorire l’emergere e il consolidarsi di atteggiamenti di ascolto e di rispetto reciproco e di scoraggiare modalità giudicanti e aggressive di relazione. Cerca quindi di contrastare gli atteggiamenti di colpevolizzazione nei confronti degli atteggiamenti e dei sentimenti correlati alle esperienze vissute, per poterli accettare e comprendere.

• Essere un luogo dove il soggetto è sollecitato a conoscere se stesso, ad entrare in contatto con i sentimenti e con le dinamiche emotive e relazionali attivati dall’intervento professionale, imparando a dare un nome ai sentimenti, a decodificare e a mettere in parola i vissuti emotivi, ad individuare ciò che appartiene al campo del soggetto e ciò che appartiene al campo dell’altro, a cogliere i nessi tra pensieri e sentimenti provati, comportamenti e scelte attuate.

• Essere un luogo dove si possono trattare temi rispetto ai quali il soggetto è spesso combattuto, al suo interno, tra istanze diverse: ad esempio tra il desiderio di accogliere un minore e sentimenti di rifiuto o di fastidio. Il primo passo verso il cambiamento consiste nell’accettare di avere, al proprio interno, opinioni razionali e tendenze emotive incoerenti o anche contrapposte, sentimenti non espressi che influenzano azioni che possono essere inadeguate, controproducenti, rispetto agli obiettivi professionali che si vogliono raggiungere.

• Essere un luogo dove il gioco psicologico attiva la soggettività nelle sue componenti razionali ed emotive. Non si parte da una lezione teorica, ma si propongono giochi finalizzati a produrre un’esperienza emozionale che sarà oggetto di discussione e di elaborazione riflessiva da parte del gruppo stesso. Le proposte di gioco comprendono tecniche, opportunamente rielaborate in riferimento agli specifici contesti professionali, di psicodramma, sociodramma, role playing, Gestalt. Il gioco consente di percepire in modo globale gli aspetti razionali ed affettivi di quanto è stato già sperimentato nella realtà per riattraversarlo criticamente e per rielaborare le difficoltà non capite, le situazioni problematiche della propria attività professionale.

• La crescita della capacità di osservazione di se stessi e del contesto relazionale favorisce una quarta funzione del gruppo di formazione, che consiste nell’avvicinamento empatico all’infanzia, realtà spesso emotivamente lontana dalla mente adulta, e nello stesso tempo evocativa del suo mondo interno. L’empatia, intesa come capacità di immedesimarsi con i sentimenti dell’altro, mantenendo intatta la percezione del proprio Sè, può migliorare la percezione dei bisogni emotivi dei minori di cui ci occupiamo, e di conseguenza la capacità di fornire ad essi risposte comprensive ed attente.

All’interno di questa impostazione teorica e metodologica si colloca la formazione centrata sulle tematiche del maltrattamento all’infanzia e dell’abuso sessuale che in questi anni il Centro Studi Hansel e Gretel ha gestito per molti Enti, pubblici e privati, che operano nel campo dell’educazione, dell’assistenza sociale, della giustizia. La richiesta prevalente è stata quella di fornire agli operatori gli strumenti che possano permettere di rilevare l’abuso e di intervenire per proteggere adeguatamente il bambino. Il paragrafo successivo tratta questo compito, che rientra nella prevenzione primaria, volta a rendere la collettività adulta più attenta e responsabile nei confronti dell’infanzia. In misura minore ci è stata rivolta una domanda formativa volta a sviluppare le competenze comunicative degli educatori, per favorire l’accoglienza ed il sostegno delle vittime. Questa seconda tipologia di domanda, proveniente per lo più da Enti gestori di Comunità per minori, ha anche essa un obiettivo di prevenzione da un secondo possibile trauma: quello del mancato ascolto, dell’isolamento, a volte della colpevolizzazione del minore abusato.

L’ultima parte dell’articolo è rivolta a individuare strategie formative in questo ambito, a riflettere sulle istanze da cui possono originare forme di abuso psicologico da parte di chi invece dovrebbe offrire protezione, anche per evitare il rischio che un rapporto di aiuto si trasformi in un rapporto che può danneggiare ulteriormente un minore già traumatizzato.

 

2. Formare alla rilevazione dell’abuso e alla protezione del minore

Facendo formazione a operatori che espletano un servizio è necessario tener conto che ciò che si prefigge di insegnare non va a definire una nuova conoscenza, ma ne modifica una preesistente: è quindi necessario favorire l’emergere delle rappresentazioni mentali dei partecipanti sul tema, altrimenti non sarà possibile modificarle e determinare un apprendimento che non sia di superficie ma che si trasferisca nel comportamento quotidiano. Il formatore può iniziare il suo lavoro sollecitando i presenti a raccontare le esperienze vissute nei confronti di qualche minore vittima o presunta vittima di abuso o, in mancanza di queste, facendo riflettere il gruppo sulle rappresentazioni mentali e sulle tendenze emozionali esistenti in merito. Un modo che sovente utilizzo per iniziare il percorso è quello di chiedere a ognuno di formulare una domanda significativa che si pone sull’argomento, e di riferire l’emozione che è legata alla domanda. Le domande che mi sono state poste in questi anni possono essere raggruppate in due grandi classi:

1) le domande sugli indicatori: come si può riconoscere un minore vittima di abuso sessuale ? Quali sono i segnali fisici, comportamentali, verbali? Come si può distinguere un racconto veridico da una menzogna?

2) le domande sull’abusante: Come fa un adulto (soprattutto se è genitore) ad abusare sessualmente un bambino? Quali forze lo spingono? Come mai il genitore non abusante sovente non protegge la vittima?

Generalmente, le emozioni espresse in relazione con la prima domanda sono: preoccupazione, impotenza, sofferenza, confusione, quelle relative alla seconda sono rabbia, incredulità, intolleranza, odio, smarrimento. In modo sporadico, nella mia esperienza, sono stati posti all’inizio interrogativi circa l’estensione del fenomeno, i danni che produce alla vittima, il percorso giudiziario, e assai raramente ho ascoltato emozioni che esprimessero in qualche modo un possibile avvicinamento alla vittima o all’adulto abusante.

Andando al di là degli aspetti di genuino interesse che esse rappresentano, si può rilevare come le due classi di domande racchiudano una posizione emotiva di allontanamento, di fatica a comprendere, dove la speranza è quella di non incontrare questi soggetti, o che ci sia un errore, che il bambino abbia mentito, e l’idea sottostante è che l’abuso riguardi una percentuale marginale di adulti devianti o alieni, assai diversi dalla rassicurante immagine di adulti benevoli e protettivi nei confronti dei minori. Questo atteggiamento emotivo è facilmente individuabile in dichiarazioni ricorrenti quali “a me non è successo mai di incontrare un minore abusato”, o “ sono situazioni assenti nella nostra realtà sociale”. Ricordo che una volta un’assistente sociale con anni di esperienza mi disse, con un po’ di indignazione nella voce, che il Centro Studi “si occupava di brutture che per fortuna non la riguardavano”. Sondando il piano dell’esperienza vissuta, emerge che gli operatori che non si sono voltati da un’altra parte di fronte alle manifestazioni di sofferenza dei bambini , hanno rilevato in parole, disegni, gesti, giochi, elementi riconducibili a un possibile abuso subito, ma che non hanno saputo come muoversi rispetto a questi segnali.

Tornando al binomio domande – emozioni, da cui siamo partiti, appare evidente che il formatore non può limitarsi a fornire tout court delle risposte ma che, controllando la propria ansia di trasmettere delle informazioni, deve far riflettere gli operatori sull’aspetto di ordine emotivo e relazionale ad esse sotteso. Un approccio impostato univocamente su di un piano cognitivo evaderebbe il compito formativo prioritario, che è quello di condurre i soggetti a mentalizzare il bisogno (generalmente diffuso) di prendere le distanze dall’abuso, che porta a ritenerlo un fatto improbabile, che non può riguardare i minori di cui siamo chiamati ad occuparci. Può essere utile che il formatore, anche per iniziare a rispondere alla prima tipologia di domande, prepari alcune storie da raccontare, relative a casi di abuso, storie che permettano sia di evidenziare la grande differenziazione dei sintomi e la loro aspecificità, che di chiarire che il passaggio dai sintomi ad un racconto fatto dalla vittima è legato alla presenza di un adulto effettivamente disponibile ad ascoltare. Un’altra strategia funzionale a far mentalizzare le difese esistenti nella nostra mente che impediscono di avvicinarsi ai minori abusati, è quella di chiedere ai partecipanti se vogliono raccontare un episodio che abbia fatto sorgere perplessità sul da farsi. A questo proposito ricordo un gruppo di insegnanti dove, dopo che si era creata un’atmosfera di calda accoglienza e di simpatia, una maestra descrisse il comportamento di una allieva di sette anni, di nome Carmen, che improvvisamente aveva manifestato problemi ad apprendere, irrequietezza, interesse a fare disegni con riferimenti sessuali. Questa maestra, con grande sensibilità ed attenzione, era riuscita a meritarsi la fiducia della bimba, che mostrava introversione e paura dell’adulto; Carmen allora le aveva raccontato gli strani “giochi” sessuali che faceva con il padre e poi le aveva detto “non voglio tornare a casa, fammi venire con te, fammi venire a casa tua”. L’insegnante, con notevole onestà intellettuale, aveva ammesso di fronte al gruppo di essere rimasta senza parole di fronte alla bimba, come paralizzata dal racconto, pur percependo che gli accenti di ansia, di vergogna e l’esplicita richiesta di aiuto potevano attestarne la veridicità, e aveva portato nel gruppo i propri vissuti di impotenza ad aiutare la bambina.

E’ importante che il gruppo, prima di procedere con proposte circa l’iter da seguire, possa accogliere il disagio dell’adulto e cercare di dare un nome ai pensieri e alle emozioni che si frappongono all’intervento di protezione del minore. In questo caso la maestra rimase dominata dall’idea che “un padre non poteva fare quelle cose”, quindi da un bisogno di pensare alla figure genitoriali in termini unicamente positivi, e quell’idea l’aveva portata a vivere una certa estraneità rispetto al racconto della bambina. L’estraneità aveva impedito l’empatia che avrebbe permesso di dare senso e valore ai segnali di disagio di Carmen. Come si evince da questo caso, la questione prioritaria da tener presente è la diffusa tendenza all’impensabilità dell’abuso, che è alla base del mancato intervento: nella maggioranza dei casi questi segnali sono dimenticati, le richieste di aiuto dei minori cadono nel vuoto, il più delle volte l’adulto non riesce a trovare nemmeno la disponibilità emotiva all’ascolto, la disponibilità che quella volta aveva permesso a Carmen di raccontare. Usando una metafora, una guida alpina durante una scalata con alcune persone alle prime armi, non si dedicherebbe certo a spiegare l’uso dei ramponi e dei chiodi, ma starebbe accanto loro nei passi più difficili, consigliandoli su dove mettere i piedi, su dove appoggiare le mani, e li sosterrebbe quando si deve superare uno strapiombo, quando la parete è ripida e gli appigli a disposizione sono lontani o incerti. Il paragone vuole riportare l’attenzione sul fatto che l’avvicinarsi a un minore che può essere vittima di gravi maltrattamenti rappresenta per ogni adulto un percorso irto di difficoltà dove gli “appigli” comunicativi e relazionali sono incerti e le emozioni che si scatenano sono difficili da reggere. Di fronte a tale questione, il formatore deve compiere ogni sforzo per evitare un atteggiamento giudicante ed anzi favorire l’espressione di tutti i dubbi dei partecipanti circa la scelta di rilevare e poi di segnalare questi casi: dubbi correlati sia al bisogno di idealizzare le figure genitoriali e il loro ruolo (che sorreggono la convinzione di una maggiore sofferenza generata dall’allontanamento), sia a processi di disidentificazione con i minori, che producono pregiudizi negativi (i bambini mentono), o il disconoscimento e la minimizzazione degli effetti dannosi dell’abuso.

Gli operatori minorili non sono certo soli portatori di questa difficoltà: è noto che la stessa letteratura psicoanalitica ha tardato ad occuparsi degli effetti patogeni dell’abuso sessuale sui minori, e che si è tuttora lontani da un riconoscimento condiviso circa l’entità e la gravità del fenomeno e dei suoi effetti. L’impegno formativo deve quindi essere volto a riconoscere e ad analizzare le resistenze messe in atto in modo più o meno consapevole dagli adulti, resistenze che consentono di non essere contagiati dalla sofferenza e dalla confusione che l’abuso comporta, tenendo presente che limitarsi a colmare il deficit cognitivo fornendo aggiornate liste di indicatori o illustrando i passi dell’iter da seguire in caso di abuso, può comportare l’inefficacia della formazione. “Non possono certo intervenire efficacemente nell’azione di tutela dei bambini gli operatori dell’area sociale, sanitaria, educativa e giudiziaria”, scrive Claudio Foti , “che non hanno sensibilità emotiva, gli operatori che non hanno capacità di preoccuparsi e di provare dolore o altri sentimenti per le persone con cui entrano in contatto, gli operatori che di fronte alla sofferenza dei bambini ricorrono senza alcuna consapevolezza ai meccanismi difensivi di rimozione di distacco emotivo di negazione di razionalizzazione… E’ necessario imparare ad ascoltare l’altro, apprendendo nel contempo ad ascoltare avvertire e decodificare le emozioni che risuonano dentro di sè: saper riconoscere ed elaborare i sentimenti positivi o negativi che ci vengono trasmessi attraverso la relazione interpersonale dai bambini e dagli adulti coinvolti nelle vicende di maltrattamento e di abuso”.

Questo lavoro richiede un tempo la cui variabilità dipende dai soggetti presenti, dalla loro personalità, dalle loro modalità di difesa, dal coinvolgimento emotivo che un soggetto traumatizzato richiede, dall’entità del loro bisogno di prendere le distanze dai vissuti di impotenza, di fragilità, di sofferenza che i minori abusati inducono nella loro mente adulta e dalla loro necessità di ricorrere a meccanismi difensivi per non riattualizzare dolorose emozioni derivate dalle proprie vicissitudini infantili. Se una conoscenza approfondita di tali meccanismi è il risultato di una analisi individuale, nondimeno la formazione può consentire, pur senza intraprendere livelli introspettivi di tale portata, di riconoscere all’interno delle relazioni professionali i vissuti che derivano dalla propria storia personale, differenziandoli da quelli indotti dal dialogo con i minori o con le loro famiglie.

Il gioco psicologico e lo psicodramma analitico che il Centro Studi Hansel e Gretel utilizza nel campo formativo, permettono di presentificare le componenti emotive che entrano in gioco nell’ascolto del minore, quali ad esempio la difficoltà ad ascoltare tematiche inerenti la sessualità e la perversione, che sono quasi sempre oggetto di conflitto. A questo proposito ricordo (e sovente racconto) ai formandi che, nel corso di una delle mie prime perizie, una bambina di quattro anni ad una mia domanda specifica mimò con due bambole un gioco sessuale orale per poi passare velocemente ad un gioco simbolico molto più rassicurante: io avevo visto molto bene eppure pensai di aver frainteso i gesti della bambina, e non le dissi nulla in merito. Soltanto dopo che potei riflettere su quanto vedere e capire “mi” faceva star male, io riuscii ad essere più incisiva con lei, interpretando le emozioni di vergogna e di paura di tradire che l’avevano costretta a tacere. Riflettere sulle mie difese mi consentì di assumere un atteggiamento di vicinanza emotiva che le permise, se pure con molta difficoltà, di farmi partecipe degli abusi avvenuti. Ritengo che la bimba avesse comunque percepito la mia difficoltà iniziale ad offrire ascolto dato che, dopo aver raccontato in preda alle lacrime gli abusi orali e genitali subiti dal padre, mi disse con voce carica di ansia che c’erano stati altri fatti ma “troppo schifosi” per poter essere detti. Io conclusi la perizia scrivendo che non le avevo richiesto di raccontarmi questi altri fatti poiché la minore era troppo angosciata e sofferente, ma successivamente pensai che la bambina con quella affermazione aveva forse voluto preservare me da un ascolto sconvolgente.

Il nodo è che un bambino, per poter parlare di un abuso subito, deve potersi fidare dell’adulto, quindi sentirlo non giudicante ma anche capace di reggere senza sgomento ad una realtà che il bambino stesso ritiene mostruosa e impresentabile: questa posizione rischia spesso di collimare con le consistenti resistenze dell’adulto prima illustrate, e quindi di vanificare i tentativi di mettere in parola l’abuso. A questo proposito nei corsi di formazione è opportuno evidenziare che ogni minore deve sentirsi sostenuto e accompagnato per poter dire qualcosa della sua terribile esperienza, che deve avere la speranza che parlando potrà essere creduto, protetto e che la sua vita potrà cambiare in modo positivo. Il minore deve essere messo al corrente che vi sono per lui altre possibili soluzioni di vita (una famiglia affidataria, una comunità), soluzioni che lui ignora, o che associa a sentimenti di paura di abbandono. E’ evidente come il sostenere la speranza in un cambiamento positivo è possibile a patto che l’operatore stesso percepisca tale idea: anche questo aspetto dell’ascolto fa i conti con il tema della separazione, che sovente è segnato nell’adulto da paure inconsce.

L’iter formativo può consentire di presentificare questi aspetti del mondo interno dell’adulto e del minore, ad esempio proponendo di simulare varie situazioni: l’ascolto di un bambino che ha evidenziato segnali di disagio, che mostra sentimenti di paura e di sfiducia nell’adulto, l’incontro con il gruppo dei colleghi di lavoro volto a valutare la scelta di segnalare alla Magistratura, il dialogo con un minore che deve essere allontanato dalla famiglia per essere protetto nella fase di avvio della perizia, l’incontro con i genitori per illustrare le scelte dell’autorità giudiziaria … Lo psicodramma consente di riconoscere le razionalizzazioni difensive che siamo inclini a costruire incontrando un bambino o un adolescente che ci segnala un grave disagio, di prendere contatto con la parte giocata personalmente nella relazione e con le possibili reazioni emozionali che può aver indotto nell’altro, consente in ultimo di migliorare la gestione dei propri sentimenti e la percezione del proprio modo di comunicare. Attraverso la tecnica dell’inversione di ruolo, che invita ad immedesimarsi nella parte dell’altro, i soggetti possono far proprie alcune emozioni che sorgono nel campo relazionale, cogliere i sentimenti non verbalizzati del bambino, identificarsi con la penosa sensazione di impotenza, di rabbia e di dolore che vive una piccola vittima di abuso

Recentemente, durante un corso con un gruppo di Vigili urbani e operatori della Polizia Giudiziaria, una giovane donna, che aveva scelto di dar voce alle emozioni di un bambino vittima di incesto, dopo aver detto poche parole, si allontanò dalla scena psicodrammatica e poi commentò che impersonare quel bambino le aveva procurato ansia intollerabile e il desiderio irresistibile di andarsene. Entrare in contatto con queste emozioni per riconoscerle come proprie può farci evitare di proiettarle sui minori e di pensare ad esempio che il bambino parlando di ciò che gli è successo soffra maggiormente. L’avvicinamento alle emozioni del minore rappresenta il primo passo per sperimentare un atteggiamento empatico, che è alla base della capacità di mettersi in una posizione di ascolto e di accettazione, condizione basilare per la percezione degli indicatori di abuso. Sovente succede che tali sentimenti sono così angoscianti che l’adulto ammutolisce o “scappa” dalla sedia dove sta rappresentando il bambino: naturalmente sta al formatore accettare benevolmente ogni difficoltà soggettiva, contrastando ansie di prestazione o di competizione che possono inibire in toto l’obiettivo formativo del contatto con la propria vita emotiva . Nel percorso formativo è opportuno alternare momenti di approfondimento individuale a momenti di gioco di gruppo, anche per far sì che tutti partecipino attivamente .

 

3. Formare all’accoglienza e al sostegno delle vittime

Questo compito formativo è rivolto solitamente a educatori di Comunità o di territorio che entrano in contatto con minori traumatizzati. Il compito educativo è reso assai difficile dall’interazione con soggetti con tratti personologici e psicologici complessi, non facilmente definibili, provenienti dall’esperienza traumatica e patologizzante dell’abuso sessuale. L’educatore può divenire il bersaglio di comportamenti che tendono a metterlo in difficoltà, entrare in situazioni relazionali coinvolgenti e conflittuali, che gli fanno sovente sperimentare vissuti di inquietudine, impotenza, sofferenza, incertezza e colpa, vissuti difficili da mentalizzare e da utilizzare in un contesto educativo. Non escludendo la necessità di indagare, per ogni specifico contesto, le caratteristiche personali, i vissuti controtransferali degli adulti, da cui possono derivare interventi inadeguati, sbagliati, cerco di delineare alcune difficoltà che compaiono in modo abbastanza generalizzato ed alcune problematiche con le quali la formazione deve confrontarsi.

Un primo aspetto da affrontare è rappresentato dalla capacità degli operatori di reagire in modo adeguato alla tendenza a sessualizzare i rapporti, tipica delle vittime di abuso, che può sfociare sia in atteggiamenti erotizzati rivolti all’adulto, che in tentativi di interazioni sessuali con gli altri minori ospiti della Comunità. Questi atteggiamenti rappresentano per il minore una reazione inconsciamente utilizzata per riattualizzare le esperienze di abuso vissute, immedesimandosi nella parte di chi agisce l’abuso invece che subirlo. La ragazzina che si comporta in modo sessualmente aggressivo preferisce pensare di essere una seduttrice forte e onnipotente piuttosto che ammettere di essere stata una bambina impotente e destinata a subire, e ciò le consente di prendere le distanze dai propri sentimenti di dipendenza e di dolore. Ma quelli che per il minore sono vissuti scissi dalla consapevolezza possono essere attribuiti dall’educatore ad una deliberata volontà seduttiva, e quindi produrre in lui reazioni di allontanamento, di aperto rimprovero o anche di ostilità. Queste reazioni hanno la conseguenza di intensificare il senso di colpa del minore, danneggiandolo ulteriormente e aumentando il suo isolamento. Oppure si può reagire alle provocazioni sessuali con il disorientamento: alcuni educatori fanno finta di non aver visto, altri si colpevolizzano, per il timore di aver involontariamente indotto eccitazione nel bambino.

Certamente è fondamentale che la demarcazione tra affetto e sesso, che viene fatta saltare dalla famiglia incestuosa, rappresenti un cardine dell’esperienza educativa, ma l’apprendimento dei limiti nel comportamento sessuale può avvenire solo all’interno di una relazione improntata all’empatia ed all’attenzione benevola. Invece può succedere che, anche quando vi sono reazioni adeguate, orientate ad interrompere il comportamento erotizzato e all’interpretarlo come un prodotto del trauma subito, gli educatori provino emozioni di confusione e di incertezza, correlate sia all’esistenza di tabù consistenti inerenti la sessualità sia a perversione, che all’ansia legata al dover riferire in équipe i fatti avvenuti. Se gli atti sessuali riguardano altri minori, gli educatori possono vivere un forte senso di inadeguatezza, dovuta alla mancata protezione di questi ultimi, e alla difficile gestione del gruppo. Queste emozioni negative, che rappresentano un forte intralcio alla strutturazione di una relazione positiva e di accettazione nei confronti dei minori, devono poter essere oggetto di analisi e di rielaborazione. Questo presuppone l’esistenza di un contesto di gruppo dove l’esplicitazione di sentimenti di avversione e di fastidio da parte degli educatori non produca colpevolizzazione o giudizi negativi, contesto che è compito del formatore creare e consolidare.

A volte il controtransfert ostile si costruisce perché nell’immaginario di chi presta aiuto vi è l’idea della vittima sofferente per ciò che le è successo, idea che contrasta nettamente con le modalità seduttive che spesso questi minori utilizzano. Essi vengono visti in modo ambivalente, dato che non sono solo vittime, ma in un certo modo anche abusanti. Sovente non soltanto chi lavora nel campo educativo e sociale, ma anche gli psicoterapeuti, provano intense emozioni controtransferali negative di fronte a questi atteggiamenti. Tali emozioni sono sempre di difficile gestione, e richiedono un accurato lavoro di supervisione e di confronto in équipe.

Un altro nodo che la formazione incontra è quello dell’assenza di un chiaro legame tra l’esperienza vissuta nel passato dal minore e i suoi atteggiamenti e sentimenti nel presente, assenza che non facilita certo la comprensione e l’avvicinamento emotivo. Ad esempio, gli educatori possono sentirsi respinti dagli atteggiamenti di ostilità e di violenza dei loro utenti, senza riuscire a decodificarli come una forma di difesa (identificazione con l’aggressore), che il soggetto erige per sopravvivere psichicamente ai vissuti di impotenza e di perdita di controllo che l’abuso ha prodotto. La formazione in questo campo deve compiere un’opera di chiarificazione che consenta a chi svolge una professione di aiuto di comprendere l’importanza di offrire un sostegno psicologico ai minori nel loro percorso di riorganizzazione dell’esperienza traumatica e di ricostruzione emotiva e mentale. In particolare si tratta di far comprendere sia la natura dei potenti meccanismi di difesa, quali la negazione, la proiezione, la rimozione e la dissociazione che la vittima usa per affrontare il trauma, che gli schemi di attaccamento, distorti e disturbati, interiorizzati dalle vittime di incesto. Questo percorso di conoscenza deve intrecciarsi con una supervisione individualizzata sui singoli minori ospiti della Comunità, supervisione che permetta di far luce sulle complesse problematiche relazionali e di costruire e di verificare nel tempo ipotesi di lavoro educativo.

Ma proprio per il complesso e delicato intreccio tra conoscenza ed emozione, per poter modificare l’atteggiamento interno dell’educatore nel senso dell’accoglienza e della comprensione, è necessario che il formatore lavori sulle implicazioni emotive delle azioni, delle situazioni, delle relazioni. Restando sul tema della decodificazione dei modi aggressivi e spavaldi di questi minori, per potervi “leggere” un meccanismo di difesa che il soggetto ha dovuto erigere per negare la realtà della sofferenza e dell’impotenza vissute, è necessario che l’educatore non sia intralciato, in questo percorso di avvicinamento, da aspetti conflittualizzati del proprio Sé. Ad esempio, un adulto che nella sua infanzia, per non mentalizzare le proprie componenti di sofferenza e di fragilità, abbia appreso a trasmettere un’immagine di sé sempre e solo con caratteristiche di forza e di efficienza, negativizzando le emozioni di dolore e di fragilità, può fare fatica ad ascoltare analoghe forme di difesa in un minore.

Ne consegue che una formazione impostata unicamente sul piano dell’apprendimento di contenuti, elude il compito di rendere l’educatore capace di prendersi cura di soggetti sofferenti, di offrire l’ascolto che può consentire loro di non sentirsi più soli con il proprio pesante fardello e la propria disperazione. E’ indispensabile che gli adulti possano avere lo spazio per riconoscere le proprie emozioni, gli oggetti interiorizzati nel passato che influenzano le relazioni del presente. La formazione deve necessariamente affondare le radici nei vissuti delle persone, per dotarle delle competenze emotive e relazionali indispensabili per poter rifornire i minori traumatizzati del sostegno e della fiducia che possono farli evolvere sul piano mentale, affettivo e relazionale. Il più delle volte, le emozioni che questi minori inducono, con i loro atteggiamenti e le loro parole, mettono alla prova le capacità di ascolto e di accoglienza degli adulti, che sovente si trovano coinvolti, loro malgrado, in relazioni confuse e persino psicologicamente abusanti. La difficile storia dell’inserimento di Sara in Comunità descritta nell’articolo di Cristina Roccia e Alessandro Vassalli in questo libro non è un caso isolato: i professionisti che operano con soggetti abusati sanno per esperienza che questi ultimi sono spesso esposti al pericolo di venire nuovamente abusati. Ci sono tante minori come Sara che sono abbandonate dalle famiglie che le prendono in affidamento, allontanate dalle Comunità che le hanno accolte, che sovente rientrano nei nuclei familiari dove è avvenuto l’incesto.

Felicity de Zulueta (1999, pag. 330) ci avverte che “non dovrebbe stupire che gli uomini e le donne che hanno scelto di diventare terapeuti, infermieri o medici per aiutare gli altri, siano esposti al potenziale pericolo di abusare i loro pazienti. Questi ultimi possono diventare oggetti disumanizzati su cui un terapeuta o un medico traumatizzato proiettano i propri desideri insoddisfatti, il dolore rinnegato e l’impotenza. Se finisce che medici e infermieri tormentano i pazienti, significa che è accaduto qualcosa di simile a quanto si verifica tra i genitori abusanti e i loro figli: la relazione di accudimento parentale degenera in una relazione di potere del Sè sull’ “altro”, che è una difesa contro il dolore ed il senso di impotenza che alcuni bambini o alcuni pazienti suscitano nei loro caregiver”. Sara, adolescente vittima di gravi violenza fisiche e sessuali intrafamigliari, faceva vivere all’équipe educativa l’impotenza ad aiutarla ed un senso di fallimento, emozioni che inducevano in loro una risposta di svalutazione e di rifiuto nei suoi confronti. “Il trattamento psicoanalitico delle persone che hanno subito abusi sessuali durante l’infanzia”, continua Felicity de Zulueta (1999, pag.197), “pone importanti questioni relativamente ai sentimenti provati dai loro terapeuti. Ascoltare il racconto delle orribili esperienze di coloro che da bambini sono stati oggetto di perverse e spesso violente richieste sessuali da parte degli adulti non è solo fastidioso: i sentimenti e le difese utilizzate dalla vittima colpiscono frequentemente, in diverso modo, anche i terapeuti, al punto da poter condurre alla ripetizione del trauma infantile dei pazienti”.

Lavorare a contatto con minori abusati richiede agli educatori una buona conoscenza del proprio mondo interno, la capacità di differenziare i propri vissuti da quelli indotti dai soggetti che incontrano, la percezione dei propri limiti di ascolto e dei temi che sono oggetto di conflitto nel proprio interno, la disponibilità a mettersi in discussione, la consapevolezza che il dialogo con questi minori richiede all’adulto di prendere contatto con l’angoscia, con la rabbia, con il bisogno di amore, con le rappresentazioni mentali dei bambini che siamo stati, a volte con il dolore di esserci sentiti cattivi e indesiderati.

 

Bibliografia

M. Buscaglioni (1991), La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Franco Angeli, Milano .

Maria Grazia Contini (1994), Per una pedagogia delle emozioni, La Nuova Italia, Roma.

Felicity de Zulueta (1999), Dal dolore alla violenza, Cortina, Milano.