
12 Mar Soggettività, gruppo ed ascolto: risorse per educare
tratto da: Claudio Bosetto, Claudio Foti (a cura di), L’ascolto. Una speranza per la scuola, dispensa del Centro Studi Hansel e Gretel
Domande semplici e ascolti difficili
Con i miei alunni ho appena finito una discussione su un argomento di attualità su cui dovranno successivamente elaborare uno scritto. Comunico la consegna per il testo e un bambino pone l’immancabile domanda: “Di quante pagine dovrà essere il testo?”
Domanda apparentemente semplice, a cui dovrebbe seguire un semplice messaggio informativo. Ho però la sensazione che nessun semplice messaggio informativo sarebbe davvero una esauriente e autentica risposta a quella domanda. E per giunta percepisco la domanda stessa come inadeguata ed irritante.
Cosa mi vorrà realmente chiedere quel bambino? Davvero è solamente un dubbio sulla lunghezza del testo? Oppure ha poca voglia di farlo e vuole capire quanto è il minimo accettabile?
Perché mi irrito? Per la dimostrazione di poco entusiasmo che smonta tutto il mio lavoro di preparazione, per l’attenzione ad aspetti formali che svilisce la sostanza del lavoro fin lì svolto?
Ma bisogna pur rispondere! Ed allora eccomi a cercare il modo di evidenziare la predominanza dei contenuti sulla forma ma lasciando trasparire il messaggio che un testo di una pagina sarà valutato negativamente… Mi sento ipocrita ed incapace, qualcosa mi sfugge e faccio appello a tutta la mia volontà per non dare una risposta irritata o sprezzante.
Eppure il bambino, apparentemente, aveva soltanto formulato una richiesta informativa! Perché mi è così difficile dire 2, oppure 3, 4…? Ma quale sarebbe poi la risposta giusta?
Credo che ogni insegnante possa trovare nella propria esperienza situazioni analoghe.
I messaggi informativi, anche quelli apparentemente più banali, per essere efficaci vanno elabo-rati e fatti propri dall’alunno, e ciò accade solo se il docente è disposto ad aprire un dialogo, a fare emergere le domande, le esigenze, le incertezze più profonde dell’allievo e a mettere in gioco, nel lavoro dell’ascolto, gli aspetti emotivi ed esperienziali della relazione. Che cosa ci sarà dietro la domanda “di quante pagine dovrà essere il testo?” Lo posso scoprire se invece di agire la mia irritazione la ascolto e mi rendo disponibile a trovare l’occasione per ascoltare il bambino.
Le risposte, quando si trovano, sono legate all’ascolto della soggettività dell’allievo e dello stesso insegnante. Se questi non ascolta l’irritazione che sta emergendo dentro se stesso, non può fermarla ed attivare un comportamento di ascolto dell’altro. L’ascolto si fonda anche su contenuti cognitivi, esperienziali e sperimentali, si avvale del contributo delle scienze psico-pedagogiche e sociali, ma, per essere efficace, deve ancorarsi all’unicità dei soggetti e della loro relazione.
L’insegnamento è una forma di artigianato che si avvale di conoscenze ed esperienze comuni e scientificamente fondate, ma che deve confrontarsi con materiali sempre diversi per produrre pezzi unici.
La mia esperienza mi ha portato a ritenere che gli ideali educativi, le scienze dell’educazione, le metodologie, gli interventi formativi più o meno ben programmati, non sono gli unici fattori di ap-prendimento, di crescita e di maturazione degli alunni. Di fronte ad ogni situazione relazionale ci troviamo di fronte una gamma di possibili risposte, e solo attraverso l’impegno dell’ascolto possiamo comprendere il concreto bisogno educativo ed evolutivo dei bambini ed offrire una risposta adeguata.
Non tradire i bisogni autentici dei minori
Tra gli educatori esiste una consapevolezza diffusa circa l’importanza dei fattori soggettivi, affettivi, nei processi educativi e formativi. Meno esplicita è la riflessione sull’influenza, in tali processi, della soggettività dell’adulto. Rischiamo ancora di muoverci in una visione scissa dell’apprendimento e dell’educazione per cui da un lato ci sono i bambini e gli adolescenti fortemente influenzati da fattori emotivi e relazionali, per i quali è importante un approccio che tenga conto di tali elementi; dall’altro ci sono gli adulti considerati, in quanto tali, dotati stabilmente di autocontrollo circa i propri stati emotivi.
Ne consegue una scissione nei metodi e negli strumenti. Nei confronti dei bambini può essere necessario attivare ascolto emotivo, favorire l’espressione dei loro sentimenti, valorizzare le loro potenzialità, curare la socializzazione e le dinamiche di gruppo… Gli insegnanti, e più in generale gli educatori, vengono ascoltati invece solo in relazione a progetti, programmazioni, sperimentazioni; i sentimenti nell’adulto sono visti come una debolezza e comunque un fatto strettamente privato; si vale in relazione ai risultati raggiunti e al grado di adeguamento all’ideologia pedagogica del momento; la relazione tra colleghi è fondata perlopiù sugli aspetti cognitivi e razionali del lavoro.
In altri termini: mentre agli educandi si pone talvolta la domanda “come ti senti?”, agli educatori si pone sempre la domanda “che cosa fai?”. Se per i minori esiste un interesse sempre più diffuso circa le loro dinamiche emotive e relazionali, gli adulti sono considerati solo in relazione alle capacità cognitive, razionali, produttive.
Stress, disaffezione al lavoro, ansia da prestazione, senso di impotenza, maltrattamento intra scolastico, sono tra le ovvie conseguenze di questo stato di cose.
Il vecchio impianto autoritario e nozionista della scuola è stato, fortunatamente, messo in discus-sione ed in crisi; ma i nuovi compiti e le emergenti responsabilità di una scuola attenta ai bisogni degli alunni vengono scaricati su insegnanti impreparati a mettersi in gioco per costruire, assieme ai loro allievi, sapere e competenza cognitiva ed emotiva.
La pedagogia e la didattica usano parole come relazione, competenza, costruzione del sapere, bi-sogni emotivi… ma rischiano di rimanere ad un livello ideologico ed alimentare ulteriori forme di abuso educativo. Se intendiamo per “ideologia educativa” una teoria e una pratica che privilegiano il “dover essere” e il “dover fare”, che delineano metodi scissi dal vitale rapporto tra gli individui, che propongono contenuti disancorati dall’esperienza soggettiva, ha poca importanza che la nostra “ideologia educativa” si rivesta di argomenti di “sinistra” o di “destra”, “progressisti” o “tradizionalisti”.
Il rischio di un abuso educativo permane fintanto che gli adulti impegnati in compiti educativi non avranno capacità di ascolto e possibilità di essere ascoltati all’interno di situazioni di formazione e riflessione permanente sugli aspetti soggettivi e relazionali che li coinvolgono come adulti e professionisti.
In concreto: noi possiamo, ad esempio, inserire nelle nostre programmazioni la pratica del circle time (il circle time è una modalità di incontro di gruppo che non si avvale del ruolo gerarchico ed ha come obiettivo la creazione di un clima collaborativo. Agli alunni viene data la possibilità, seguendo regole condivise, di parlare liberamente in gruppo. Cfr D. Francescato, 1986, Star bene insieme a scuola, La Nuova Italia, 1986; T. Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti, Firenze, 1991), ma se come insegnanti ed educatori non siamo preparati a sostenere l’impatto con le emozioni dei bambini e degli adolescenti, è illusorio pensare di attivare in noi capacità di ascolto. Il nostro ascolto risulterà selettivo e si limiterà ai contenuti che riusciamo ad accettare e inevitabilmente forzeremo le espressioni degli allievi verso argomenti per noi rassicuranti. Possiamo avere chiara l’importanza del gruppo ma non per questo riusciamo a gestire gruppi. La saggezza popolare ci diceva che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, parafrasando il proverbio possiamo dire che tra l’enunciazione di principi pedagogici, la programmazione di interventi didattici e la loro concreta at-tuazione, ci siamo noi, c’è il mare della nostra soggettività, delle nostre emozioni, delle nostre difficoltà, delle nostre ansie… la consapevolezza su questo mare è il discrimine tra abuso pedagogico e educazione come accompagnamento e costruzione cooperativa.
L’empatia presuppone una capacità di ascolto, di consapevolezza, di autostima, di conoscenza del proprio valore, così come dei propri limiti e difficoltà. Devo essere sicuro delle mie capacità e devo saper accettare i miei limiti e miei errori per potermi mettere continuamente in gioco e aiutare i bambini a costruire il proprio sapere. Al contrario tenderò a riproporre un sapere preconfezionato, sterile, ma che mi offre una apparente sicurezza.
Ascolto del minore e ascolto di sé
È ancora diffusa è la credenza che la volontà e gli ideali educativi dell’adulto possano efficace-mente incidere su modalità relazionali empaticamente carenti o maltrattanti. Vorrei in proposito portare un esempio non scolastico ma relativo alle relazioni famigliari.
Andrea è il padre di una bambina di dieci anni, Rossella. È un padre affettuoso, disponibile e re-sponsabile, eppure, da alcuni mesi, i suoi rapporti con la figlia sono sempre più conflittuali. An-drea rimprovera alla figlia di non avere più un atteggiamento responsabile rispetto ai suoi doveri, ed effettivamente Rossella è diventata più trasandata nella cura delle proprie cose, trascura la scuola, è meno disponibile, ha alcuni comportamenti di provocazione e aggressione. Andrea ricorre al ben noto armamentario educativo: richiama Rossella ai propri doveri, stigmatizza gli atteggiamenti scorretti, consiglia, punisce, spende tempo e fatica in lunghi discorsi intorno al dovere, alla volontà, alla responsabilità. Credo che nessun genitore sensibile abbia dei dubbi circa i risultati: Rossella non cambia se non diventando sempre più insofferente. Siamo in estate e la bambina passa la maggior parte del suo tempo in giardino, lontano dai genitori, riduce al minimo il tempo in comune, reagisce con rabbia o con il pianto ad ogni richiamo dei genitori.
Cosa sta capitando Andrea riuscirà a capirlo con una riflessione sulle proprie modalità relazionali e sui propri sentimenti. Rossella sta diventando grande, in lei crescono bisogni di autoaffermazione, anche in opposizione agli adulti, e in questo sviluppo suo padre non riesce subito a cogliere la positività di una vita che si afferma, piuttosto soffre per la sempre maggiore indisponibilità di Rossella a ricoprire un ruolo di “bambina/bambolina” sempre affettuosa ed accondiscendente, immagine di cui evidentemente Andrea sente la necessità, ma che non rimanda a bisogni evolutivi, di crescita, di Rossella.
Non si cambia nulla di ciò che non riusciamo ad accettare: Andrea dovrà riconoscere ed accettare la propria bisognosità, dovrà riuscire a parlarne con qualcuno, per poterla affrontare in modo ade-guato. Solo così riuscirà a frenare l’oppositività della figlia e a favorirne positivamente la crescita.
In questo come in tanti altri simili casi che incontriamo anche a scuola, la domanda pedagogica prioritaria non è «Cosa debbo fare con questo bambino?», bensì «Come mi sento, cosa provo, nella relazione con questo bambino?»
L’ascolto nella relazione educativa, è innanzitutto ascolto di sé, ma questo ascolto è tutt’altro che agevole, in quanto, se rigoroso ed autentico, potrà portarci a vedere quanto, in tutti noi, esistano parti sofferenti, bisognose, autoreferenziali, inadeguate dal punto di vista educativo, se non maltrattanti o abusanti. Infatti questo ascolto è qualcosa che nessuno vuole ascoltare.
Una pedagogia e una didattica di consapevolezza relazionale riempirebbero un vuoto e porterebbero forse ad un progresso in una scienza, la pedagogia, che si muove lentamente perché, come diceva Ferenczi, gli adulti tendono a non ricordarsi di quando erano bambini. Come dire, gli adulti non hanno consapevolezza delle cause profonde delle loro modalità relazionali, non hanno consapevolezza di quanto la vita infantile condiziona i comportamenti. Non sanno quello che fanno perché non sanno perché lo fanno.
Per dare risposte bisogna ascoltare, per ascoltare bisogna sapere che c’è un messaggio
Talvolta negli incontri di formazione con insegnanti, proponiamo un gioco in cui chiediamo ai partecipanti di riportare una situazione comunicativa difficile vissuta con un bambino, una domanda, una confidenza che ci ha messo in imbarazzo o a cui non abbiamo saputo rispondere.
Quello che spesso emerge è il contrasto tra la vitalità, l’autenticità, la richiesta di messa in discussione implicita nelle domande poste dai bambini e le risposte di noi adulti caratterizzate da ritrosia, controllo esasperato, ricerca perfezionistica, talvolta mutismo.
Un’insegnante, dopo questo gioco, espresse le sue emozioni in questi termini: “Mi sento triste e provo anche rabbia per tutte queste occasioni sprecate, sono triste per questi bambini che ci rivolgono domande a cui non sappiamo rispondere; provo rabbia pensando a me, bambina, e alla volte in cui mi sentivo inascoltata; provo rabbia anche pensando a me insegnante così in difficoltà a dare risposte adeguate”.
Nei primi anni della mia attività di insegnante, avrei detto: “Non ci sono domande a cui non si possa rispondere, in ogni caso un adulto deve dare l’impressione di poter rispondere a tutto”.
Esiste tuttora una parte significativa di insegnanti, ed in generale di adulti, che non si pongono il problema della risposta per il semplice fatto che sono sordi alle domande. Non mentono questi adulti quando mi dicono: “Ma i bambini certe cose le vengono a dire solo a te! Ma non è possibile, io in tanti anni certi discorsi non li ho mai sentiti!”.
Se è ben vero che i bambini hanno dieci mila modi per esprimere il loro disagio, è anche vero che gli adulti hanno dieci mila modi per non ascoltare. Dobbiamo però offrire agli adulti uno spazio per l’ascolto affinché questi stessi adulti possano a loro volta offrire uno spazio di ascolto ai bambini. Questo è il filo conduttore dell’intervento del Centro Studi Hänsel e Gretel nel campo della formazione degli insegnanti e degli educatori.
Voglio raccontarvi una storia emersa in un corso di formazione.
Storia di Maria: una storia collettiva
«Sono in un enorme atrio, con una grande scala, dappertutto è pieno di gente, tanti bambini, non ne ho mai visti così tanti tutti insieme. Quei bambini sembrano sapere cosa fare e dove sono, io no, non capisco tanto bene, c’è troppo rumore, tutti parlano. Ho la mia mamma vicino, ma sento una minaccia che incombe, so che qualcosa di brutto dovrà accadermi, da tanti giorni la mia mamma mi ha detto che dovrò rimanere per un po’ da sola. Io lo so già cosa vuol dire rimanere soli: mi è capitato un po’ di tempo fa ed è stato così brutto che non riesco neppure a pensarci, so solo che c’era come una nebbia ed io piangevo sempre.
Adesso la gente si muove, vanno in direzioni diverse, noi saliamo le scale, c’è sempre tanta confusione e rumore, nessuno mi spiega cosa sta accadendo ed io sono sempre più confusa, nella mia testa ci sono tante cose, c’è tanto spavento, vicino a me c’è ancora la mia mamma, ma è quasi come se non ci fosse, non mi parla.
Il rumore è finito, sono dentro ad una grande stanza, mi hanno fatto sedere, la mia mamma è vi-cino alla porta, forse vorrebbe rimanere, ma una signora la manda via. Adesso è tutto finito, nessuno parla più, solo quella signora dice delle cose, ma io non la sento. La mia mamma non c’è più, non so quando la rivedrò, non l’ho capito, forse presto, ma adesso sono sola. C’è silenzio, c’è luce, ma io non capisco proprio più nulla. Piango, cerco di non farlo, perché questo l’ho capito da tempo: piangere è una cosa che non va bene, da molto fastidio ai grandi.
Penso e spero che anche tutto questo finisca presto: è iniziato il mio primo giorno di scuola.
A casa e a scuola io cerco di non piangere. A volte mia madre mi sgrida severamente, io non parlo più e penso: “Sono davvero cattiva, me lo merito”. Soffro dentro di me, ma non piango. So di essere cattiva e di fare cose per cui non potrei mai essere perdonata.
A volte sento di odiare i miei genitori, quando mi dicono di no e non mi spiegano il perché. Io non sono una brava bambina, gli altri pensano che io sia una brava bambina, ma io so che non è vero.
Mia nonna lo sa e mi dice che sono cattiva come mia mamma, a me viene voglia di spaccare tut-to.
Quando faccio arrabbiare la mamma, lei non mi parla più, io soffro tanto, la supplico di rispon-dermi, ma per tutto il giorno non mi parla, neppure prima di andare a dormire, io sono disperata, sento che non c’è speranza.
Piango da sola, in camera mia, quando nessuno mi vede, a volte sento i miei genitori nell’altra stanza che litigano, piango anche per questo. A volte vorrei scappare, so che è una cosa brutta che non dovrei neppure pensare, piango e mi sento cattiva, falsa, io non voglio davvero bene ai miei genitori, sto facendo solo una scena, non soffro davvero, racconto solo bugie per farmi compatire.
Mia madre mi dice: “Comportati bene, se no tua madre muore”. Mi racconta di essere malata, mi chiede se voglio il suo cuore, che intanto ormai non funziona più. Io temo che possa essere colpa mia se mia mamma muore, anche perché a volte lo desidero ed ho paura di questi miei desideri orribili.
Certe volte spero di essere proiettata come per miracolo, in un’altra famiglia, in un’altra vita.
Quando avevo quindici anni ho cominciato a ribellarmi, ad uscire di casa e a rientrare a tutte le ore, poi venivo massacrata di botte, non ricordo cosa facevo, forse piangevo: mi ritrovo anche adesso, ogni tanto a piangere, ma non riesco a capire o a dare parole alle mie lacrime. Voglio fare qualcosa per gli altri ma poi ne ho paura, penso di non esserne capace. Vorrei scappare, divertirmi, godermi la vita, non posso accollarmi le sofferenze di tutti.
Ora sono una insegnante, mi piace quello che faccio, ma a volte vorrei scappare via, per me è tanto difficile capire se faccio bene il mio lavoro. Mi sento inadeguata, incapace, mi sento in colpa per i miei errori, mi sento in colpa perché so di fare troppo poco, ripenso a me stessa e mi dico: “Maria tu non sei all’altezza del tuo compito, lo hai dimostrato tante volte, quando sgridi i bambini perché sei nervosa; quando fai finta di non capire e non vedere i chiari segni di sofferenza e maltrattamento dei bambini; quando stai sempre dalla parte dei genitori anche se sai che spesso sono loro la causa del malessere del bambino; quando senti di disprezzare, odiare, un bambino che ti fa sentire una nullità; io non sono stata all’altezza del mio compito quando, con il mio alunno Luca insistevo perché svolgesse un compito, pur sapendo benissimo che non ne era capace, poi lo umiliavo dicendogli: “Ma non vedi che tutti hanno già finito? Manchi solo tu! Sbrigati!”. E poi con i colleghi discutevo sul perché Luca fosse aggressivo.
Sono passati tanti anni, mi trovo a passare vicino ad un Istituto Tecnico e mi sento salutare: è Luca. La cosa che più mi stupisce è che è contento di vedermi! Allora, penso commossa, non sono stata poi così male! Luca frequenta le superiori, e con profitto. Mi racconta tante cose, non ha perso del tutto l’abitudine a parlare sempre. Poi incontriamo anche sua madre che mi racconta di grandi progressi e dello stabilizzarsi di una situazione che oggi è serena.
Mi dico: “Luca ce l’ha fatta, sarebbe importante avere sempre maggiore consapevolezza di quanto di positivo e di quanto di negativo abbiamo fatto nella relazione con lui, sarebbe importante avere degli spazi e dei tempi per riflettere».
Questa non è la storia di una singola persona, è una storia collettiva, che abbiamo composto met-tendo insieme le testimonianze e gli interventi raccolti all’interno del corso di formazione, i cui partecipanti erano gli stessi che hanno poi scritto la poesia collettiva riportata nel paragrafo suc-cessivo.
Nel riflettere sui problemi legati all’ascolto del disagio e del maltrattamento è importante com-prendere come, in questo campo, le istanze della volontà, del dovere, della conoscenza intellettuale, entrino in gioco solo in un secondo momento, quando il soggetto ha sufficientemente chiarito e pensato gli aspetti soggettivi ed emotivi legati al problema. È pericoloso e fuorviante esaltare o considerare prioritariamente gli aspetti cognitivi, volontaristici, doveristici, a scapito di istanze più profonde, e spesso molto poco chiare, più vicine alla coazione che non alla libera scelta.
Non ci sono adulti che non vogliono ascoltare per egoismo o superficialità, incontriamo piuttosto adulti che non possono ascoltare, perché l’ascolto potrebbe scatenare ansie non gestibili o perché non sanno che c’è un messaggio. Non abbiamo quindi adulti che “sbagliano la risposta”, abbiamo adulti che riescono a capire che il bambino ha lanciato un messaggio, colgono il carattere problematico della comunicazione, ma non riescono a gestire l’ansia, l’incertezza, la sofferenza che gliene deriva. Non abbiamo peraltro neppure bambini che, con chiarezza, sanno di star chiedendo aiuto o esprimono con precisione la loro richiesta.
Il maltrattamento: qualcosa di cui nessun vuol sentir parlare
È un fatto, evidente quanto poco considerato, che i bambini disturbati disturbano.
Ma i bambini che mi interrompono, che mi provocano, che mi impediscono di lavorare, quei bambini non mi muovono a pietà, anzi mi fanno arrabbiare, come posso vederli come vittime quanto io insegnante mi sento una loro vittima?
Esiste una falsa idealizzazione per cui i bambini maltrattati dovrebbero stimolare istinti protettivi. Non è purtroppo vero che la comunità adulta sia così pronta e desiderosa di accudire ai propri piccoli: non tutti sono disponibili, tutti noi siamo talvolta indisponibili.
Accrescere la consapevolezza relazionale significa anche accettare di essere talvolta indisponibili, significa riuscire a vedere le proprie componenti maltrattanti. Con alcuni colleghi, in un corso di for-mazione, abbiamo scritto:
Noi, come maestri, non siamo stati all’altezza del nostro compito
quando abbiamo alzato la voce con una alunna
che, per la quarta volta, non ha saputo la lezione, facendola piangere;
quando abbiamo detto ad un bambino:
“Ma cosa ho fatto di male per avere te in classe?”;
quando abbiamo investito, con aperta disapprovazione,
quel bambino che aveva sbagliato, portandoci le forbici,
anziché quell’altra cosa che gli avevamo chiesto;
quando vogliamo convincere i bambini a non picchiarsi tra loro;
quando proviamo grande irritazione per il comportamento di un bambino
invadente, petulante, noioso;
quando una bambina ci ha chiesto perché
la bimba morta l’avevano messa là dentro;
quando abbiamo chiuso un bambino nei servizi degli insegnanti;
quando la bambina ha continuato a piangere,
per un motivo che avevamo ben capito,
ma abbiamo fatto finta di credere a quello che lei diceva;
quando, nello svolgimento di un lavoro,
abbiamo sgridato quel bambino,
che preferiva volgere la sua attenzione ai giochi;
quando non abbiamo voluto capire
perché quel bambino piangeva per non dormire.
Nei casi di maltrattamento ed abuso la confusione, la colpa, la sofferenza, che il bambino vive (e che non riesce a sentire l’adulto maltrattante) si spande intorno a lui, generando ansia ed incertezza in chi lo avvicina.
Non dobbiamo però sentire estraneo il maltrattamento.
Dice Montecchi: “Il lavoro mentale che devono fare coloro che operano a contatto con il mondo dell’infanzia è in primo luogo con se stessi, per mettersi in condizione di vedere, ascoltare e acco-gliere la voce delle vittime, dopo aver riconosciuto quanto in ognuno di noi alberga una componente abusante” (F. Montecchi, Gli abusi all’infanzia: dalla ricerca all’intervento clinico, Nuova Italia, Roma, 1994).
“Nulla di ciò che è umano mi è estraneo” (Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Il punitore di se stesso, I, 1, 25) e il maltrattamento purtroppo è un fenomeno profondamente umano, forse unicamente umano, perché gli altri animali non maltrattano i loro cuccioli.
Se ci sentiamo estranei o superiori ci precludiamo la possibilità di aiutare, comprendere, cambiare. Come invece capita se il maltrattamento ci appare un fenomeno talmente mostruoso da risultare “imperdonabile”.
Una collega, in un corso di formazione, trattando del maltrattamento agito dagli insegnanti all’interno della scuola, si era dichiarata scandalizzata dalla possibilità che un educatore potesse mal-trattare l’educando. In particolare si discuteva degli atteggiamenti di svalutazione e disprezzo che possiamo agire nei confronti degli allievi. La collega si era dichiarata a favore del massimo rispetto possibile, della valutazione delle possibilità dell’alunno, della necessità che l’insegnante fosse sempre e comunque “oggettivo e imparziale”. In particolare mi colpì una sua dichiarazione: “Se io disprezzassi un allievo non sarei più degna di fare l’insegnante”.
Credo che una tale convinzione, basata su una ideologia educativa astratta, scissa dalla realtà relazionale ed emotiva, non è garanzia di un atteggiamento educativo rispettoso e coerente verso i bambini. Al contrario è proprio la difficoltà a percepirsi come soggetti potenzialmente, e talvolta effettivamente, capaci di maltrattamento che può renderci capaci di maltrattare senza neppure sospettare di farlo.
Se il fastidio verso un allievo viene considerato “sentimento indegno” per un insegnante, un vissuto che, se provato, dovrebbe portare all’abbandono della professione, allora è altamente improbabile che un insegnante possa ammettere anche con se stesso di provare tale emozione. Ma dato che non è possibile non provare, almeno qualche volta, sentimenti di rifiuto, di fastidio, e talvolta di vero disprezzo verso un allievo o verso alcuni suoi atteggiamenti, questi sentimenti negati si tradurranno inevitabilmente in atti, ossia produrranno maltrattamento.
La collega cui ho accennato ha poi trascorso gran parte dell’incontro esprimendo, nei fatti e non con una esplicita verbalizzazione, il suo totale disinteresse per quanto nel gruppo accadeva: impiegò il tempo a correggere i compiti, a compilare il registro, a leggere. In conclusione la professoressa disse che rispetto al maltrattamento e all’abuso in danno ai minori, ciò che per lei era importante era “non drammatizzare”, anche perché a lei non era mai capitato di vedere casi davvero gravi di maltrattamento.
Non drammatizzare un dramma e ritenere inaccettabili le difficoltà e gli insuccessi degli educatori: ecco una ricetta efficace per non vedere la propria sofferenza, la sofferenza degli altri, per infliggere sofferenza senza accorgersene.
Mi sono chiesto se l’insegnante a cui ho accennato non riservasse ai suoi alunni lo stesso tratta-mento riservato al nostro gruppo: esplicita indifferenza, disprezzo ed incomprensione verso i drammi, i problemi e le difficoltà che gli altri esprimono.
Ascolto, passione, accoglienza, progettualità
L’azione educativa implica la costruzione di un progetto.
Pro-gettare significa proiettarsi oltre il presente, immaginando un futuro, ipotizzando un cambia-mento. Noi sappiamo che il cambiamento, e quindi il progetto, per poter partire hanno bisogno, direbbe Bowlby, di una “base sicura”, e questa base sicura è fatta innanzitutto di ascolto ed accetta-zione.
In questi giorni ho iniziato a “progettare” il percorso didattico del prossimo anno scolastico. Avrò di fronte un nuovo gruppo di bambini, di prima, che devono iniziare il loro percorso di apprendimento. Dovrò recuperare e rivedere il materiale didattico necessario, programmare unità di lavoro, rileggere qualcosa della vasta letteratura in merito, cercare le novità…
Ma intanto devo fare i conti con qualcos’altro: quale è il mio desiderio, quali sono i miei bisogni, quale la mia disponibilità.
Devo confrontarmi con la mia possibilità e desiderio di mettermi in gioco con quei bambini, di assumere certamente la posizione dell’adulto che deve educare ed insegnare, ma che è anche una persona intera, che non può scindere il proprio lavoro da sé.
E quindi mi devo chiedere se sono ancora capace di passione – che è un atteggiamento mentale, vitale e positivo, verso l’attività e verso l’oggetto dell’insegnamento – e di l’accoglienza, che è un atteggiamento mentale, vitale e positivo, verso gli allievi. Un’accoglienza che riconosca, rispetti e gioisca della alterità dei bambini, del loro essere portatori di una soggettività e di una bisognosità individuale radicalmente distinta dalla mia e da quella degli altri bambini.
Devo fare i conti col mio desiderio di lavorare per rendermi il più possibile inutile, dopo aver of-ferto ciò di cui sono capace. Accogliere e poi lasciar andare dei piccoli che arrivano con un loro baga-glio e se ne andranno per una strada che io non conoscerò.
Verrà infine il momento in cui avrò finalmente davanti quel gruppo e quei singoli allievi.
Il momento in cui la tecnica, l’ideale, si confrontano con l’originalità dell’esperienza, con la particolarità del gruppo, con l’unicità mia e di ogni bambino.
Dovrà iniziare un percorso di ascolto attento della competenza dei singoli allievi; in un confronto continuo con la mia capacità di tollerare il dubbio, l’incertezza, l’errore, dovrò accompagnare l’allievo in un cammino di consapevolezza delle proprie capacità evolutive, di tolleranza ed accettazione dell’errore e del limite.
È evidente quindi che anche nell’ambito più strettamente didattico i più importanti fattori di cambiamento sono sempre la condivisione e l’ascolto empatico, a cui è legata una rappresentazione autentica del bambino e una valutazione realistica del suo percorso scolastico.
Avere in testa il ragazzo nella sua unicità, credere nelle sue potenzialità per costruire un progetto chiaro e con obiettivi raggiungibili.
Freud aveva inserito l’educare tra le professioni impossibili. È un mestiere che implica interazioni e questo rende incerta, non garantita la riuscita e non tanto perché uno strumento tecnico utilizzato ha o non ha funzionato a dovere, ma perché bisogna entrare in relazione con un soggetto umano ricevente e per di più bambino o adolescente ed anche con le parti infantili o adolescenti, magari non risolte, di noi stessi educatori.
Inoltre la creazione di un progetto educativo non è frutto delle scelte di un singolo docente, pre-suppone un lavoro di gruppo e quindi una condivisione tra varie opzioni relative agli obiettivi, ai contenuti, ai metodi, alle valutazioni.
Credo sia importante, nel momento in cui ci confrontiamo per effettuare queste scelte, essere consapevoli del fatto che, in campo educativo, non esiste soltanto la ragione del metodo scientifico. Esiste ad esempio l’etica che in modo razionale può offrire conoscenza e discrimine tra diverse op-zioni.
L’etica, che è orientamento nella relazione tra persone, riporta alla concretezza delle situazioni reali i valori in cui crediamo; il suo campo di azione è la scelta tra le diverse possibilità. È quindi ciò che sta tra i nostri principi educativi, le nostre conoscenze, i nostri ideali e la concreta gestione della nostra classe.
Ma da dove hanno origine le nostre decisioni etiche? Esiste un sapere pratico che può nascere dal confronto e dall’ascolto, supportato ma non determinato dalle scienze della formazione, esiste la pos-sibilità di costruire conoscenza, consapevolezza non già individuale o data dall’esterno, bensì relazio-nale, collettiva che implica la dimensione di socialità e di gruppo.
Strettamente connesso a quello della costruzione di consapevolezza educativa c’è allora l’esigenza di costruire un senso di identità ed appartenenza degli insegnanti e degli educatori.
La sfida che ci poniamo è la costruzione di un’appartenenza ad un gruppo che si pone come metodo ed obiettivo ascoltare e aiutare se stessi per ascoltare e aiutare gli altri.