Un progetto educativo e formativo per la scuola interculturale

Un progetto educativo e formativo per la scuola interculturale

di Claudio Foti, Claudio Bosetto

* Questo testo è estratto da un articolo pubblicato sul numero 3/2008 di MinoriGiustizia, Angeli, Milano

1. Un confronto ineludibile

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L’eterogeneità è sempre esistita nella scuola italiana: eterogeneità dialettali e di capacità linguistica, eterogeneità socioculturali e di classe, eterogeneità intellettive e cognitive. La diversità etnica approfondisce il disagio della scuola italiana di fronte alla diversità. Tanti ragazzi di origine straniera con storie e problematiche differenti. Svariate le tipologie: nati in Italia da genitori regolari, nati in Italia o immigrati ma con una prolungata separazione dai genitori, immigrati con i genitori, figli di genitori irregolari o clandestini, figli di rifugiati, bambini in nuclei monoparentali (o orfani), bambini giunti in Italia con adozioni internazionali, minori non accompagnati …1 E ancora: minori comunitari, extracomunitari, neocomunitari, rom e sinti. Diversità di storie di vita, di livelli di integrazione familiare, diversità di stili cognitivi, di conoscenze acquisite e di problematiche di apprendimento, diversità di ansie e pregiudizi, avvertiti e suscitati.
La diversità dei ragazzi incontra inevitabilmente la diversità degli atteggiamenti educativi e mentali degli insegnanti, la diversità delle risposte istituzionali, la maggiore o minore elasticità e disponibilità all’accoglienza e all’integrazione da parte dei sistemi scolastici e delle politiche locali. Di fronte alla diversità la reazione difensiva più immediata sul piano emotivo è la paura, sul piano operativo è il rifiuto. Occorre allora insegnare agli insegnanti a riconoscere ed elaborare la paura, ad avere fiducia nelle proprie risorse umane e professionali e dunque nella possibilità di affrontare la diversità etnico-culturale non già in termini di negazione, di evitamento o di respingimento, bensì sviluppando risposte di tolleranza, di riconoscimento, di dialogo, di impegno. (………………………………………………..)

2. La diversità: ci sono “diversi da accogliere” e “diversi da disprezzare”?

In un intervento formativo con un gruppo di insegnanti di una classe, considerata “difficile”, di una scuola secondaria di primo grado, abbiamo ascoltato la preoccupazione dei docenti per alcuni alunni ad alto rischio, che probabilmente consumavano stupefacenti. Verso questi ragazzi li insegnanti dimostravano capacità empatiche e disponibilità ad una relazione d’aiuto. Contemporaneamente, lo stesso gruppo di docenti, esprimeva totale incomprensione, che si traduceva in rifiuto e disprezzo, per un gruppo di ragazzi della stessa classe che si autorappresentavano come “nazisti”, “razzisti”, “naziskin”.
Ovviamente non dobbiamo confondere tra vittime ed aggressori, le regole esistono e devono essere fatte rispettare. A scarso di equivoci affermiamo con forza che gli atteggiamenti violenti e razzisti nella scuola vanno fermati e va contrastata la diffusa tendenza degli insegnanti a defilarsi di fronte all’intolleranza che circola nella scuola, abdicando così alle responsabilità educative. Non si tratta dunque di mettere in discussione il diritto della società e della scuola di isolare e punire chi compie atti criminosi. Si tratta invece di riconoscere che anche gli allievi “naziskin” o “razzisti” non meritano a priori una risposta simmetrica e speculare alla stigmatizzazione nei confronti dei soggetti diversi di cui questi stessi ragazzi sono portatori. Occorre certamente contrastare in modo efficace le azioni dei ragazzi intolleranti, ma occorre anche cercare di creare un ambiente educativo e relazionale che tenti almeno di metterli in crisi,
I ragazzi violenti, i bulli, disprezzano la fragilità e disconoscono la nostra comune umanità. Se li disprezziamo e li stigmatizziamo come di fatto irrecuperabili li ripaghiamo, a ben vedere, della loro stessa moneta. Potrà essere un atteggiamento comprensibile ma certo non offre alcun modello alternativo di relazione e nessuna possibilità di cambiamento. È una tentazione che può attraversare la mente di tutti gli educatori: siamo disposti a spendere la nostra empatia solo per “chi se lo merita”. È facile empatizzare per il soggetto debole, per il ragazzo straniero fintanto che rimane aderente alla nostra rappresentazione di soggetto povero, bisognoso e desideroso di integrarsi. È facile attivare una tutela del bambino che incarna una certa rappresentazione della vittima “indifesa”, umile e non pretenziosa, sempre grata per il nostro “prezioso” aiuto.
L’incapacità di cogliere l’umanità dell’altro, soprattutto quando l’altro non corrisponde al nostro ideale di umanità, non è una difficoltà cognitiva, bensì emotiva. C’è un grande rischio nella pretesa di educare con gli appelli alla ragione, alla cultura, all’etica: c’è una trappola per cui al ragazzo che gioca la parte del razzista, del bullo, del “naziskin”, rifiutiamo di riconoscere quella stessa umanità che lui rifiuta di riconoscere agli altri.
Non difendiamo certo i ragazzi stranieri, attaccando con sostanziale intolleranza i ragazzi “razzisti”, rifiutandoci di coinvolgerli a partire dai loro vissuti emotivi di disagio e rinunciando a confrontarli con i loro primitivi e rischiosi meccanismi difensivi di proiezione e di scissione.

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